martedì 14 aprile 2009

Cap. 2 - Il duello

Sentii qualcosa che mi faceva rotolare sulla schiena.
"Veck, Kajira," disse una voce, con durezza. "Veck, Kajira." [1]

Non era una voce paziente. Guardai in alto spaventata. Gridai per il dolore.
Una punta di metallo si conficcò nel mio corpo, proprio tra l’anca sinistra e il basso addome. La punta si sollevò e l’asta della lancia fu girata; l’uomo mi colpì alla coscia destra, duramente, con il manico della lancia.
Mi coprii la bocca con la mano; il suo piede sollevato, calzato con sandali pesanti, quasi degli stivali, calciò la mia mano lontano dalla bocca. Aveva la barba. Ero in mezzo alle sue gambe e lo guardai con terrore. Egli non era solo. Vi era un altro uomo ad un passo dietro di lui. Entrambi indossavano una tunica rossa; ciascuno portava, sul lato sinistro, una spada e una sciabola; entrambi avevano alla cintura un pugnale intarsiato.

L’uomo dietro a quello che avevo su di me portava uno scudo sulle spalle, fatto di strati di cuoio e ottone, e portava una lancia, in cima alla quale era appoggiato un elmo con pennacchio scuro di crini scarmigliati. Indossava una collana di denti presi a qualche carnivoro, intorno al collo.
L’uomo più vicino a me mise il suo elmo e lo scudo da un lato; l’elmo di entrambi avrebbe dovuto coprire l’intero capo e una parte del viso; era aperto sul davanti con un taglio ad Y. I capelli di entrambi gli uomini erano lunghi; quelli dell’uomo più indietro erano legati con una striscia di stoffa ripiegata.
Scivolai tra i piedi dell’uomo che mi tratteneva, muovendomi all’indietro. Non avevo mai visto uomini simili, prima. Mi sentivo così vulnerabile. Erano molto alti e grossi, come animali. Mi accovacciai a distanza. La catena, appesa al mio collo, era pesante. Mi fermai, mi girai e provai a coprirmi come potevo, con le mani. Non osavo parlare.
Uno dei due uomini mi urlò qualcosa come un ordine. Muoveva la mano infuriato. Tolsi le mani dal mio corpo. Mi voltai, ancora accovacciata. Avevo capito che ce l’avevano con me.
L’uomo barbuto si avvicinò. Non osai guardarlo negli occhi. Non potevo capire questi uomini. Il mio mondo non mi aveva preparato a credere neanche che potesse esistere questo genere di uomini. Eppure mi stavano molto più vicini di quanto avrebbero voluto fare gli uomini del mio mondo.
Ognuno, nel mio mondo, a quanto pare, è come se fosse trasportato in una bolla nello spazio, nei perimetri, lungo i muri, in uno scudo di invisibilità, una distanza incosciente mutata con l’informazione e sanzionata dalla cultura, una barriera decretata dalle convenzioni e dai condizionamenti sociali. E dietro questo muro invisibile, all’interno di questo personale privatissimo spazio, noi viviamo. Ci separiamo dagli altri, ci manteniamo persone, individui.

Nella mia particolare cultura terrestre, questo cerchio di inviolabilità, di privacy individuale, ha un raggio di circa due o tre piedi. Più vicino di così, di solito, nella mia cultura non abbiamo altri approcci. Ma quest’uomo mi stava molto vicino. Stava addirittura dentro il mio spazio. E realizzai all’improvviso che il mio spazio non esiste in questo mondo. Cominciai a tremare per il terrore.
Per quanto piccola possa sembrare, forse, questa convenzione in questo mondo non viene riconosciuta né rispettata, ed effettivamente almeno nel mio caso non esiste, sebbene non sia in verità una piccola cosa.
No, per me lo sbriciolarsi di questo artifizio, di questo dispositivo di sicurezza, di questa convenzione, era catastrofico; era difficile far comprendere il mio senso di perdita, di essere indifesa; su questo mondo, il mio spazio non esisteva.

Vedevo la cinghia di cuoio nera, larga, lucida, intorno al suo corpo, dalla quale pendeva la lama lungo l’anca sinistra. Dietro la cinghia vedevo le fibre rosse rudemente tessute e spesse della sua tunica. Sapevo che poteva stritolarmi con le braccia e frantumarmi il collo, e con la forza che doveva avere poteva imprimere il segno della sua cinghia sui miei seni se mi avesse stretta.
Sentivo la punta del pugnale sotto il mento. Mi ferì. Spingeva la lama. Gridai, saltando in piedi e mettendomi vicino a loro. Stavo più in piedi che mai, più di quanto lo fossi mai stata nella vita.
L’uomo fece un passo indietro e poi, insieme all’altro, mi ispezionarono completamente, girandomi intorno. Discutevano di me, tranquillamente. Non riuscivo a capire il loro linguaggio. Il mio mento era molto sollevato, al punto che il pugnale lo aveva lasciato. Tremavo. Sentii un piccolo movimento della catena nel cerchio del collare. Mi stavo chiedendo quale era lo status delle donne in questo mondo, in un mondo dove vi erano simili uomini.
Impiegarono alcuni minuti per esaminarmi completamente. Non avevano alcuna fretta. I due uomini si affiancarono di nuovo a me, uno poco dietro l’altro, guardandomi. Sentivo il collare, appesantito dalla catena, tirare verso il basso le mie clavicole; la catena pendeva in mezzo al mio seno. Sentivo la pesantezza degli anelli sul corpo. Mi sollevai ancora di più sui piedi.
“Per favore…” bisbigliai, restando immobile nella mia posizione.
L’uomo barbuto mi si avvicinò. Senza preavviso mi colpì con la mano destra, uno schiaffo rapido, selvaggio, con la mano tesa. Fui scaraventata al suolo, inciampando sull’estremità della catena che mi teneva crudelmente prigioniera per il collo. Le mie labbra e un lato del mio viso erano feriti. La testa sembrava volermi esplodere. Assaporavo il sangue.
L’uomo urlò un ordine. Nel panico e nell’angoscia, in un movimento di collare e catena, mi alzai e mi rimisi in fretta al posto dov’ero prima con il mento sollevato, così velocemente come non avevo mai fatto prima.
Mi chiedevo ancora che status potevano avere le donne in quel mondo, in un mondo dove vi erano uomini simili. Non mi colpì più. Sembrava placato dalla mia obbedienza. Mi parlò ancora. Lo guardai negli occhi. Per un istante i nostri occhi si incontrarono. Caddi in ginocchio. L’altro uomo mi spinse sui talloni, in modo che il mio corpo poggiasse seduto sui talloni. Mi prese le mani e me le poggiò sulle cosce. Li guardai verso l’alto.

Sono bruna, con capelli castano scuro. I miei occhi sono di un castano molto scuro. Ho la pelle chiara. Sono alta circa cinque piedi e il peso si aggira sulle 120 libbre. Probabilmente non sono molto avvenente ma ho il mio fascino.
Gli uomini mi guardavano dall’alto in basso. A quell’epoca, i miei capelli erano corti. Sentivo la punta della lancia dell’uomo barbuto sotto il mio mento, e lo sollevai tenendo la testa in alto.
Il mio nome è Judy Thornton. Sono una poetessa inglese. Mi ero inginocchiata davanti a dei barbari, nuda e incatenata. Ero tremendamente spaventata.
Mi ero inginocchiata esattamente dove mi avevano messa, a malapena osando respirare. Avevo paura a fare il benché minimo gesto. Non intendevo essere colpita di nuovo, nè irritarlo e neppure offenderli in alcun modo. Non sapevo cosa erano in grado di fare, questi uomini vigorosi e terribili, così imprevedibili, così intransigenti e primitivi, così differenti dagli uomini della Terra, se non fossi stata così completamente ed assolutamente compiacente con loro. Per questo avevo deciso di non farli arrabbiare e che avrebbero avuto tutta la mia obbedienza.
Così mi inginocchiai senza muovermi dinanzi a loro. Sentivo il vento spostare i capelli sulla mia nuca. I due uomini continuavano a guardarmi. Questo mi spaventava. Ero paralizzata. Ero rimasta, ovviamente, dove mi avevano messa. Guardavo dritto davanti a me, non osando incontrare il loro sguardo. Ero sgomenta, terrorizzata dal poter fare inavvertitamente qualcosa che li facesse infuriare. Non muovevo neanche un muscolo. Rimanevo inginocchiata sui talloni, le mani sulle cosce, il mento in su. Le mie ginocchia erano permute l’una contro l’altra, sulla difensiva.
L’uomo stava dicendo qualcosa. Non potevo capire. Poi, con il manico della lancia, rudemente mi ha separato le ginocchia.
Mi chiamo Judy Thornton e sono una poetessa inglese. Non potevo chiedere aiuto né gemere, la posizione era così elegante e così indifesa. Ero inginocchiata in quella che più tardi avrei imparato essere la posizione della pleasure slave goreana. Soddisfatte, le bestie mi girarono intorno. Non mi mossi. Erano indaffarati nelle vicinanze della roccia. Sembravano cercare qualcosa.
Poi, il barbuto ritornò vicino a me e disse qualcosa. Era una domanda. Reiterò la domanda. Lo fissavo terrificata. I miei occhi si riempirono di lacrime.
“Non lo so” bisbigliai, “Non capisco. Non so cosa volete”.
Egli si voltò e si rimise a cercare. Dopo un po’, arrabbiato, tornò a fissarmi. Il suo compagno era con lui.

“Bina?” disse molto chiaramente. “Bina, kajira. Var Bina, kajira?” [2]
“Non so cosa volete” mormorai. “Non vi comprendo”.
Dedussi che stavano chiedendo notizie su quello che avevano cercato e non trovato. Avevano coperto tutta la zona completamente, anche cercando in mezzo all’erba con le lame delle loro lance. Ma non avevano trovato nulla.
“Var Bina, kajira?” ripeteva l’uomo barbuto. Ero inginocchiata dove mi avevano lasciata, la catena perdeva, pesante, dal collare.
Improvvisamente, violentemente, egli mi colpì sulla bocca con la parte posteriore della mano destra. Precipitai a sinistra, sull’erba. Il colpo era rabbioso. Mi ferì molto più del primo. Non riuscivo a credere alla sua forza, alla sua risolutezza, alla sua velocità. Potevo a malapena vedere; combattevo l’oscurità e il dolore e ribollivo; avevo le mani e le ginocchia poggiate nell’erba, a testa in giù. Assaporavo il mio sangue, il collare mi feriva il collo.
Sputai sangue nell’erba; egli mi aveva colpito: non capiva che sono una donna!
Tirò la catena e il collare verso le sue ginocchia, affondando entrambe le mani nei miei capelli.
“Var Bina, kajira! Urlò. “Var Bina!”
“Non capisco!” urlai.
“Ohhh!” gridai in un lamento. Con entrambe le mani mi stava sbatacchiando la testa furiosamente. Non potevo credere al dolore. Afferrai con le mie piccole mani indifese i suoi polsi.
“Var Bina!” continuava a urlare. (e che palle’ sto cazzo di Var Bina!)
“Per favore…” chiesi.
Mi gettò a terra, con uno strattone della catena, ai suoi piedi. Giacevo là, terrorizzata. Si slacciò la cinghia dalla spalla e la scagliò da un lato, insieme al fodero e alla lama. Allentò rapidamente la cintura alla vita, lasciando scivolare il fodero e il pugnale, piegandola poi in due e sbattendola una volta sul palmo della sua mano. Non potevo vederlo. Ero ancora immobile dove mi aveva scagliata lui, nell’erba. Sentii fischiare la cinghia nell’aria. Urlai per il dolore. Ancora ed ancora, crudelmente, mi picchiava.
Si fermò. “Var Bina, kajira?” chiese.
“Vi scongiuro, non battetemi” implorai.
Ancora mi percosse, e ancora e ancora. Mi contorcevo ai suoi piedi, dimenandomi sull’ombelico affondato nell’erba, piangendo, strappando l’erba con le mani. Il dolore era tale che non riuscivo a comprenderlo e a malapena a sentirlo. Mi aveva picchiata! Non vedeva che sono una ragazza!
“Vi prego, non colpitemi” gridavo, “Per favore!” e mi coprivo il volto con le mani. Avevo la testa abbassata. Rabbrividivo ad ogni colpo. Avrei fatto qualsiasi cosa purchè si fermasse! Ma non capivo che cosa voleva! (ma un calcio nei coglioni no? allora dillo che ti piace, piccola masochista!)

Si fermò, adirato. Non alzavo la testa, ma restavo lì a piangere, le mani sulla testa, la catena avviluppata intorno alle gambe che mi stringeva il corpo. Lo sentii che rimetteva il pugnale nel fodero e lo riagganciava alla cintura. Lo sentii rimettere la cinghia sulla spalla e riprendere la spada. Non osavo alzare lo sguardo ma continuavo a piangere, incatenata, tremante. Avrei fatto qualsiasi cosa avesse voluto, qualsiasi.
Uno dei due uomini si rivolse a me parlando e mi spinse con il manico della lancia. Sollevai le mani drizzandomi sulle ginocchia. Sentivo la catena pesare sul collare. Fui ancora spintonata dal manico della lancia. Gli occhi arrossati, le guance e il corpo rigati di lacrime, dolorante, il sedere e le gambe irritate, aggiustai la catena e mi inginocchiai di nuovo come prima. Avevo sangue nella bocca.
Poco era cambiato. Ero inginocchiata esattamente come e dove ero prima. Quel poco che era cambiato, riguardava il fatto che ero stata picchiata e presa a cinghiate.
I due uomini confabulavano. Con orrore, vidi poi quello barbuto avvicinarsi a me. Si accovacciò davanti a me. Prese dal fodero il pugnale con lama d’acciaio, lungo circa sette pollici, a doppio taglio e affilato uniformemente. Me lo puntò sulla faccia. Non parlava. L’altro uomo si acquattò dietro di me. Con la mano sinistra, mi afferrò i capelli, ritandomi la testa all’indietro. Con la mano destra mi spinse in su il collare di ferro pesante che portavo, ferendomi il mento. La mia vena giugulare, mentre ero trattenuta dal ferro circolare, sporgeva ed era esposta.
“No” implorai, “No!”
Dedussi che non ero stata utile per questi uomini. Sentivo il delicato filo della lama affilata come un rasoio sulla mia gola.
“Var Bina. Kajira?” domandava l’uomo. “Var Bina?”
“Vi prego!” supplicavo. “Vi prego!”. Avrei fatto qualsiasi cosa, avrei detto loro qualsiasi cosa, ma non sapevo nulla. Non avevo le informazioni che volevano.
“Non uccidetemi” implorai. “Farò qualsiasi cosa volete! Risparmiatemi! Tenetemi con voi, prigioniera! Tenetemi per qualsiasi cosa vogliate! Non sono bella? Non vi servo? Non vi piaccio?”
All’improvviso, dall’inconscio dentro di me, scaturendo da qualche luogo così in profondità che non sapevo neanche che esistesse, sommergendomi, facendomi sussultare, sconvolgendomi con la mia stessa malvagità, gridai “Non uccidetemi! diventerò vostra schiava! Si! Si! Risparmiatemi la vita! Sarò la vostra schiava! Lasciate che io sia la vostra schiava! Vi imploro di farmi essere la vostra schiava!”

Ero sconvolta dall’orrore, dalla scandalosità, dalla malvagità delle cose che avevo detto. Ma poi audacemente, disperatamente, risolutamente, non rinnegando niente, avevo suggerito bisbigliando chiaramente e con fermezza, con la testa rovesciata all’indietro e la sua mano che mi teneva per i capelli “Non uccidetemi vi prego. Si, sarò per sempre la vostra schiava. Io, Judy Thornton, sarò la vostra schiava, Io, Judy Thornton, vi imploro di essere la vostra schiava. Per favore, vi prego, lasciate che io sia la vostra schiava!”.
Provai a sorridere. “Fate di me la vostra schiava” mormoravo, “Padroni!”.
Come sussultarono quando li chiamai Padroni, ma era naturale per loro, in quanto io ero una ragazza, una preda naturale per loro, e loro erano i padroni per natura, per oscure leggi di biologia, come lo era per me essere schiava.
“Vi supplico, Padroni”, sussurrai.
“Var Bina, kajira?” chiese di nuovo l’uomo.
Li stavo supplicando inutilmente. Non sapevo che loro, ricchi e potenti padroni, avevano a disposizione molte donne belle, anche più belle di me. Sulla Terra non ero additata come una bellezza, piuttosto come insolita affascinante ragazza, ma su Gor, come avrei dovuto capire, potevo essere stata acquistata e venduta per una manciata di tarsks (monete di rame). Non c’era niente di speciale riguardo a noi. In molte case avevamo caldaie e fornelli, come ragazze di cucina o sguattere. Ero stata la ragazza più bella nella categoria junior del mio collegio. In tutte le altre scuole, una soltanto ce n’era più graziosa di me, la leggiadra Elicia Nevina, che era nella classe senior di antropologia. Quanto l’avevo odiata! Che rivale era stata!


Sentivo la lama del pugnale penetrare nel primo strato di pelle, preparandosi allo squarcio. Sentivo la mano e il braccio dell’uomo spingere la lama d’acciaio, flettersi per il movimento del braccio. La mia gola stava per essere tagliata. Ma la lama si fermò. Si allontanò dalla mia gola. L’uomo barbuto mi guardava da lontano, dall’alto. Tesi l’orecchio. Stava canticchiando tra sè e sè una melodia lenta e ripetitiva.
Bruscamente l’uomo barbuto si alzò, rinfoderò il pugnale e prese lo scudo e la lancia. L’altro uomo, già equipaggiato anche con l’elmo, guardò il compagno avvicinarsi. Soppesò la lancia nella mano destra. L’uomo barbuto non aveva ancora l’elmo, ma gli stava accanto. Avevo le mani e le ginocchia sporche di erba. Non osavo muovermi. Tirai il collare e la catena, inutilmente. Rimanevo bloccata in quel punto. Alzai la testa intorpidita.

Un altro uomo si stava avvicinando, lentamente e senza fretta. Sembrava di buon umore. Cantava una canzone con voce squillante, come quelle che si cantano nei lunghi viaggi. Aveva i capelli scuri e ispidi. Anche la sua tunica era scarlatta, come gli altri due. Era equipaggiato in maniera simile, con una spada corta sul fianco mancino, una cinghia sulla spalla; la cintura in vita reggeva un pugnale sguainato; sandali pesanti, quasi stivali.
Portava una lancia sulla spalla sinistra, bilanciata con la mano mancina: alla lancia era attaccato uno scudo, dietro le sue spalle, e un elmo. Sopra la spalla destra portava una borsa che supponevo contenesse rifornimenti; una borraccia di liquido, forse acqua, era fissata alla sua cintura sulla sinistra, dietro al punto in cui il fodero era agganciato alla cinghia sulla spalla. Camminava canticchiando, sorridendo, attraverso l’erba alta. Sembrava vestito in maniera simile agli altri due uomini, indossando una tunica molto simile, ma essi reagirono in maniera tale da far comprendere che non erano contenti della sua apparizione in quel momento.
La sua tunica era tagliata in maniera alquanto diversa; aveva un simbolo sulla spalla sinistra che li aveva contrariati. Queste differenze mi sembravano sottili, per loro che sapevano leggerle erano molto significative.
Scossi la catena. Nessuno mi prestò attenzione. Se fossi stata libera, sarei scappata via. Brontolai tra me e me. Dovevo attendere.
L’uomo sopraggiunto, sempre cantando, si fermò a circa venti metri da noi, e restò nell’erba a sogghignare. Teneva la lancia, con i relativi oggetti pendenti, nella mano sinistra e sollevò la destra in un gesto cordiale, mostrando il palmo.
“Tal, Rarii!” ([1]) disse a voce alta, ghignante.
“Tal, Rarius” rispose l’uomo barbuto.
Il nuovo arrivato prese la borraccia dalla cintura e si tolse la borsa che portava in spalla.L’uomo con la barba agitò le braccia adirato, e parlò aspramente. Gli stava ordinando di andare via. Indicava se stesso e il compagno. Erano in due.

Il nuovo arrivato sogghignò e lasciò cadere la lancia a terra, abbandonando anche elmo e scudo. L’uomo barbuto si mise l’elmo sulla testa, celando le sue fattezze. Sollevando lo scudo col braccio sinistro, la lancia nella mano destra, l’elmo calzato, il nuovo arrivato prese ad avvicinarsi con cautela. Ancora una volta l’uomo con la barba gli fece segno di allontanarsi. Ancora una volta gli gridò parole dure. Il nuovo arrivato sogghignava.
Parlarono insieme, tutti e tre. Non riuscivo a capire niente. Il nuovo arrivato parlava con calma e si batteva le cosce nel ridere. Gli altri due uomini parlavano ancora adirati. Quello senza barba agitava la lancia. Il nuovo arrivato non gli prestò alcuna attenzione. Guardava oltre gli uomini, guardava me.
Solo allora presi coscienza, come non avevo fatto prima perchè avevo paura, di una reazione emotiva e fisiologica sconosciuta di cui ero stata vittima qualche momento prima, quando avevo implorato quegli uomini di rendermi loro schiava.
Le mie sensazioni fluivano non solo con terrore ma mescolandosi a simpatia, quasi una strana isterica reazione a tensione e alle emozioni finora trattenute. Avevo detto cose che non mi sarei mai sognata di poter dire e che ora non potrei più negare. Realizzai che avevo implorato di essere resa schiava. Naturalmente ero terrorizzata, ma sentivo nel profondo del cuore che non le avrei mai dette quelle cose se non fosse stato per salvarmi la vita. Ero disperata e volevo solamente salvarmi la vita. E naturalmente avrei detto qualsiasi cosa! Ma era il modo con cui l’avevo detto che mi aveva sbigottito, così profondamente sentito, così immediato. Mescolato al terrore, c’era stata una liberazione degli istinti soppressi, una gioia nella confessione, un entusiasmo nel mostrarsi autentica e onesta.
Che io fossi stata terrorizzata e disperata al punto tale da voler salvare la vita a tutti i costi, era stata solo l’occasione e una giustificazione sufficiente della mia espressione, ma quel terrore non poteva spiegare l’ammissione selvaggia e incontrollabile né il superamento delle inibizioni che sentivo, l’entusiasmo impetuoso, l’abbandono, la resa a me stessa e ai miei istinti, benché confusi e misti a paura, che mi avevano tanto sbigottita e spaventata.
Il terrore non era così importante. Era stato nient’altro che un’occasione, ma non un elemento determinante. L’importante era quello che avevo provato quando avevo implorato i due possenti uomini di essere i miei padroni. E’ stato come se, nel chiedere la catena di ferro, mi fossi liberata di migliaia di invisibili catene che mi avevano da sempre invischiata. Catene di ferro che tenevano i miei pensieri imprigionati e la mia realtà, che non mi permettevano di lottare per quello che –nel mio cuore– non desideravo, dato “che cosa” non ero.
Mi chiedevo poi quale era la natura delle donne. Prima, credevo che consistesse nelle emozioni che mi scorrevano dentro e dalle quali non ero terrorizzata. Poi avevo sentito la libertà di esprimerle, e lo avevo fatto. Stranamente, in quei momenti, al di là del terrore che avevo provato, ero anche eccitata. Mai nella mia vita ero stata così eroticamente stimolata, così eccitata, come quando avevo supplicato i due uomini di rendermi loro schiava.
Ora guardavo il nuovo arrivato, che a sua volta guardava me. Rabbrividivo. Nuda e incatenata, sentivo il mio corpo impregnato dall’ardore del desiderio. Forse aveva posseduto i corpi di molte altre donne. Mi fece una smorfia. Sentendomi valutata nella mia nudità esposta arrossii violentemente. Chinai la testa. Ero furiosa. Chissà cosa ha creduto che io fossi. Una ragazza incatenata, schiava, la cui avvenenza avrebbe potuto appartenere al più forte, o al più potente, o a quello dalla spada più rapida, o al più alto offerente?
Mi additò. Disse qualcosa, l’umo barbuto rispose bruscamente, brandendo l’arma, ordinando al nuovo arrivato di andarsene via, ma quello si mise a ridere. L’uomo con la barba disse ancora qualcosa, gesticolando verso di me. Il tono della voce era sprezzante. Lo sentivo arrabbiato. Il nuovo arrivato mi guardò più attentamente. Si rivolse a me, chiamandomi attraverso l’erba. La parola che disse l’avevo già sentita prima. Me l’aveva detta l’altro uomo dopo avermi spinta con la lancia, prima che mi fossi inginocchiata a terra, prima di essere picchiata e battuta, e poco prima che mi puntassero il pugnale alla gola. Piegando la testa mi inginocchiai, la catena ciondolava dal mio collare prima di appoggiarsi nell’erba. Mi inginocchiai sui talloni, la schiena dritta, le mani sulle cosce, la testa sollevata, guardando fisso in avanti. Spinsi le spalle indietro, il seno sporgente. Non trascurai la postura delle ginocchia; le allargai così tanto come sapevo che desiderava l’uomo che mi aveva divaricata con il manico della lancia. Mi ero inginocchiata in maniera più elegante e inerme di prima di quanto gli uomini possono disporre una donna, in quella posizione che più tardi avrei imparato chiamarsi quella della pleasure slave goreana.

Il nuovo arrivato stava di nuovo parlando in modo risoluto. L’uomo con la barba e l’altro replicavano rabbiosamente. Il nuovo arrivato, come potevo vedere con la coda dell’occhio,mi stava additando. Sghignazzava. Tremavo e rabbrividivo. Stava esigendo me! Stava dicendo loro di darmi a lui! La grassa bestia! Quanto lo odiavo e quanto mi piaceva!
Gl altri due ridevano. Io ero spaventata. Erano in due, e lui era solo! Dovrebbe fuggire! Dovrebbe mettersi in salvo! Io ero in ginocchio, incatenata. (oh che palle! l’abbiamo capito che sei in ginocchio e incatenata, non occorre ripeterlo ogni mezza pagina!)
"Kajira canjellne!" disse il nuovo arrivato. Poi mi additò perentoriamente con la sua lancia, indicandomi ad uno dei due uomini che guardava. Non gli toglieva gli occhi di dosso.
L’uomo barbuto osservava adirato.
"Kajira canjellne" egli ammise. "Kajira canjellne" disse anche l’altro uomo, più sobriamente.
Il nuovo venuto si spostò indietro di qualche passo. Si accovacciò. Strappò un filo d’erba e iniziò a masticarlo.
L’uomo con la barba mi si avvicinò. Dall’interno della tunica attinse due strisce di cuoio nero e intrecciato, ciascuna lunga circa 18 pollici. Si accovacciò dietro di me. Mi spinse i polsi dietro la schiena e li legò, stretti. Mi legò anche le caviglie, altrettanto strette. Potevo percepire il cuoio intrecciato che affondava nelle caviglie e nei polsi. Sobbalzai impotente. Poi, afferrandomi per i capelli con la mano sinistra, da dietro, sentii che estraeva una chiave dalla tunica per infilarla dentro la serratura del collare, dietro l’orecchio sinistro. Il pesante collare, con il suo lucchetto, fu premuto contro il lato sinistro del mio collo.
La chiave girò. Sentii lo scatto che l’apriva. Fu uno scatto sordo. Doveva essere un lucchetto molto pesante. L’uomo fece cadere la chiave nell’erba e con entrambe le mani strattonò il collare, aprendolo. Il collare cadde, con la catena agganciata, nell’erba. Ero stata liberata dal collare! Guardai il collare. Era la prima volta che lo vedevo. Come avevo congetturato, era uguale alla catena. Era pesante, circolare, di ferro nero, incernierato, efficiente, pratico, terribile. Era dotato di un anello solido. Un anello della catena era agganciato all’anello circolare, di circa due pollici e mezzo di diametro.
Ero libera dal collare! Ma ero legata inesorabilmente per le mani e i piedi. Tiravo inutilmente i miei legacci.
L’uomo barbuto mi sollevò sulle braccia. Il mio peso non era niente per lui. Rivolse il viso allo straniero, che restava accovacciato a poca distanza.
"Kajira canjellne?" chiese l’uomo barbuto. Era come se stesse dando allo straniero un’occasione per ritirarsi. Forse era stato fatto un errore? Forse c’era stato un malinteso?
Lo straniero, accovacciato nell’erba, con lo scudo dietro le spalle, il manico della lancia poggiato sull’erba, l’arma dritta puntata al cielo, annuiva. Non c’era nessun malinteso. "Kajira canjellne" rispose semplicemente.

Gli altri uomini furiosi raggiunsero un posto nell’erba, di fianco a lui. Qui, con la lama della lancia, tracciò e scavò un cerchio nel terreno. Era circa dieci piedi di diametro. L’uomo barbuto mi caricò sulla sua spalla e mi trascinò fino al cerchio. Mi lasciò cadere nel mezzo del cerchio. Restai là, legata. Gli uomini parlavano tra loro, come se si stessero spiegando e chiarendo. Non parlarono a lungo. Mi agitai per rimettermi in ginocchio, in mezzo al cerchio.Lo straniero era fermo. Indossava l’elmo. Fece scivolare lo scudo dal braccio, aggiustando la cinghia. Estraeva di poco la spada al suo fianco e la faceva rientrare, facendola entrare e uscire dal fodero. Era impaziente. Prese la spada con la mano destra. Aveva un’impugnatura pesante, circa due pollici di larghezza, quasi sette piedi in lunghezza; il manico dell’arma, inclusa l’elsa, era circa 20 pollici di lunghezza; la lama letale della spada cominciava 2 pollici sopra l’inizio dell’elsa, cosa che rinforzava la spada pur rendendola affusolata, ed era una lama a doppio taglio lunga 8 pollici da questo punto.

La spada era di bronzo: era ampia sul fondo, affusolata alla punta; data la robustezza dell’arma, la poca gravità di questo mondo, e la forza dell’uomo che la brandiva, sospettavo che dovesse avere una grande forza di penetrazione. Dubitavo che lo scudo che aveva, benché solido, potesse parare tutti I colpi, se presi frontalmente. Sospettavo anche che una tale arma potesse spingersi per un quarto della relative lunghezza attraverso il corpo di un uomo, e forse anche per la metà e oltre attraverso il corpo di una semplice ragazza. Guardavo la lancia; sembrava così possente; ne avevo paura.
I due uomini che mi avevano catturata conferirono brevemente tra di loro. Quello senza barba fece un passo avanti, lo scudo in mano, la lancia impugnata. Era distante quaranta passi dallo straniero.
Li osservavo. Erano fermi, non si muovevano, ciascuno vestito di rosso, ciascuno con l’elmo, ognuno egualmente armato. Stavano lì nell’erba. Nessuno dei tre mi guardava. Ero stata dimenticata. Mi inginocchiai nel cerchio. Provai a liberarmi. Non ci riuscii. Rimasi inginocchiata nel cerchio. Il vento muoveva l’erba. Le nuvole scivolavano nel cielo blu. Per un lungo istante, nessuno dei tre si mosse. Poi, all’improvviso, lo straniero sollevò la lancia sghignazzando e conficcò il manico nel terreno.
"Kajira canjellne!" egli ridacchiò [4].
Non potevo crederci. Sembrava esultante. Era compiaciuto dalla prospettiva di un duello. Che cosa terribile! Quanto arrogante, quanto magnifico mi sembrava! Pensai di aver conosciuto, con orrore, la natura degli uomini.
"Kajira canjellne!" disse l’altro uomo.
Prudentemente essi cominciarono a girargli intorno.
Io attendevo in ginocchio, terrorizzata, nuda e legata, nel cerchio. Guardavo gli uomini che cautamente ne circondavano un altro. Strattonai i legacci. Ero disarmata.
Improvvisamente, quasi di commune accordo, ognuno iniziò a gridare, emettendo urla selvagge, urlando contro gli altri. Era il rituale del duello con le lance. (e qui inizia la telecronaca di un duello a tre, tanto dettagliato quanto ridondante :-p )
La lancia di uno di quelli che mi avevano catturata sembrò volare per aria, rimbalzando in obliquo dopo essere scivolata sulla superficie dello scudo dello straniero. La lancia, rimbalzando sullo scudo, era volata a più di 100 piedi di distanza, cadendo nell’erba dove era in piedi, distante e inutile, l’estremità del relativo manico che puntava al cielo. La lancia dello straniero aveva penetrato lo scudo di uno dei miei carcerieri, e lo straniero, prendendola per il manico tra il braccio e il corpo, l’aveva scagliata contro lo scudo del suo avversario, che non aveva avuto il tempo di ripararsi con lo scudo, colpendo il terreno ai suoi piedi.

La spada dello straniero, liberata dal fodero, si agitava sopra l’elmo dell’avversario. Ma lo straniero non lo colpì. Egli tagliò la cinghia dello scudo dell’antagonista, liberando il braccio di quello. Fece poi un passo indietro. Fece cadere anche il suo scudo nell’erba. Rimase lì ad attendere, impugnando la spada. L’altro uomo infilò le gambe sotto di lui e saltò fra i suoi piedi. Era infuriato. La spada saltò fuori dal fodero. Assalì l’altro, lo straniero, e rapidamente diede battaglia.
Ero paralizzata dal terrore. Rabbrividivo con orrore. Non erano umani, non per come conoscevo io gli umani. Qui c’erano guerrieri e bestie. Urlai di paura.
Avevo sempre avuto paura delle lame d’acciaio, e anche dei coltelli. Ora ero inginocchiata, legata e nuda, completamente esposta e vulnerabile, nelle vicinanze di uomini crudeli, combattenti e forti, che con determinazione e minacce, con affilato e rifinito acciaio, si gettavano nelle crudeltà di una guerra.Combattevano. Io guardavo, ad occhi spalancati e legata. Furiosa ed aspra era la precisione con cui combattevano. Erano vicinissimi a me. Piagnucolavo. Avanti e indietro, in mosse rapidissime, praticamente non si spostavano da quell’orribile contesto. Mi chiedevo quale razza di uomini potessero essere, sicuramente non come quelli che finora avevo conosciuto. Perché non si spaventavano per le loro stesse spade? Perchè non scappavano via? Si sono affrontati e dati battaglia. Quanto temevo e quanto ero spaventata da questi uomini? Come avevo potuto inginocchiarmi tremante davanti a loro?

L’uomo rotolò all’indietro, grugnendo, contorcendosi, poi appoggiò le ginocchia nell’erba e girò la testa per guardarsi sulla spalla, piegato dal dolore, portandosi una mano al ventre sanuguinante, abbandonando la spada nell’erba.
Lo straniero si allontanò da lui con la spada che grondava sangue. Rimase ad osservare l’altro uomo.
Quello con la barba alzò lo scudo e scagliò la lancia.
"Kajira canjellne!" disse.
"Kajira canjellne!" ripetè lo straniero. Andò a recuperare la lancia con cui prim aveva penetrato lo scudo dell’uomo con cui aveva condiviso lo sport della guerra. Il nemico caduto era piegato nell’erba; il suo labbro inferiore era insanguinato; se lo era morso con i denti, per evitare che il suo dolore lo facesse gemere. La sua mano aveva afferrato la sua tunica bagnata di sangue, stringendola dove la cinghia era strappata. L’erba era insanguinata intorno a lui.
Lo straniero si curvò per prendere lo scudo sfondato, che doveva liberare dall’arma di bronzo. In quell’istante, l’uomo barbuto, urlando selvaggiamente, si scagliò contro di lui, brandendo la lancia.
Prima che potessi urlare per l’orrore o che il mio corpo potesse muovere un muscolo, lo straniero aveva già reagito, rotolando da un lato e rimettendosi in piedi in un istante, assumendo la posizione di guardia. Mentre un grido di sofferenza sfuggiva dalle mie labbra, la lancia scagliata dall’uomo barbuto sfrecciava a sinistra dell’elmo dello straniero. Lo straniero non restò vicino allo scudo penetrato dalla lancia, ma lo abbandonò. Per la prima volta, lo straniero non sembrava più baldanzoso. La lancia dell’uomo con la barba cadde nell’erba. Il manico affondò nella terra. Fronteggiava lo straniero adesso, con la spada sguainata. Nell’istante in cui aveva perso la spinta aveva lasciato la lancia, rotolando e sfoderando la spada. L’uomo barbuto era di fronte. Ma lo straniero non si era lanciato contro di lui. Attendeva, in posizione di guardia. Gesticolava con la spada, indicando che ora dovevano dare battaglia.

Con un urlo di rabbia l’uomo barbuto si avventò contro di lui, colpendolo sullo scudo, la spada piatta e bassa. Lo straniero non era lì. Per tre volte il barbuto caricò, ed ogni volta lo straniero fece in modo da non essere nel punto dell’impatto. La quarta volta, lo straniero si fece trovare dietro di lui alla sua sinistra. La spada dello straniero fu infilata sotto l’ascella sinistra. L’uomo con la barba rimase impietrito, con il viso rivolto verso di lui. Lo straniero ritirò la spada. Fece un passo indietro. L’uomo barbuto lasciò andare lo scudo dal braccio. Le cinghie erano state recise e lo scudo pendeva dal braccio. Lo scudo scivolò urtando col bordo nell’erba, e poi rotolò e ruzzolò finchè rimase piatto, largo, concavo con la superficie ribaltata verso il cielo. Potevo vederne le cinghie recise.
I due uomini si fronteggiavano ancora. Poi si attaccarono.
Stavo realizzando, come mai prima, la destrezza dello straniero.
Lo aveva appena assalito come aveva fatto col primo avversario. Con rapida anche se misurata foggia, si stava preoccupando che il suo nemico non comprendesse appieno la potenza della sua spada, il devastante e letale potere che sembrava trasudare dal veloce acciaio.
Vidi con orrore l’uomo ferito, poggiato su un gomito, che osservava. Non era stato ancora trucidato. Giaceva nell’erba insanguinata perché lo straniero gli aveva permesso di vivere. Era umiliato che lo straniero avesse giocato facendolo inciampare, proprio sotto gli occhi del compagno con la barba, quello che pochi minuti prima si preparava a tagliarmi la gola.
Legata, inginocchiata in mezzo al cerchio, fu con un improvviso sobbalzo di paura che realizzai che lo straniero era il Padrone degli altri due! Quattro volte fu messo in pericolo, con la lama puntata al petto o alla gola, e non fu finito. Lo straniero si mosse verso la posizione dove l’uomo barbuto era caduto, lasciando lo scudo alle sue spalle.
Con un urlo lo straniero costrinse il barbuto, che stava cadendo, inciampando nello scudo, a restare in piedi e a rimanere nell’erba dinanzi a lui, con la spada puntata alla gola. Lo straniero, nel frattempo, faceva un passo indietro. L’uomo con la barba inciampò. Lo straniero restò in piedi, in posizione di guardia. L’uomo barbuto prese la spada e la scagliò nell’erba. Affondò fino all’elsa. Egli rimase a guardare lo straniero. Lo straniero rinfoderò la spada. L’uomo barbuto aveva slacciato la cinghia del pugnale, lasciando cadere fodero e arma nell’erba. Poi si avvicinò lentamente al suo compagno e ugualmente gli tolse la cintura del pugnale. I due uomini avevano la tunica insanguinata per le ferite, usata per tamponare il flusso del sangue. L’uomo barbuto sollevò il compagno reggendolo in piedi, ed entrambi si allontanarono dal campo. Lo straniero continuava a tenerli d’occhio. Li guardò fino a che essi non scomparvero in lontananza. Poi rimosse la lancia dallo scudo dove si era conficcata. La spinse in su e in giù e poi la appoggiò sul terreno. Era una cosa normale. Si sedette sullo scudo. Poi si girò dal mio lato.
Ero ancora inginocchiata in mezzo al cerchio, circondata da spade e lance disseminate sul terreno. Ero nuda. Ero legata senza pietà. Ero in un mondo alieno.
Cominciò ad avvicinarsi a me. Ero terrorizzata. Si fermò davanti a me. Non ero mai stta così terrorizzata. Eravamo così assolutamente soli! (Norman non capisce un cazzo di psicologia femminile! grunt! non è questo lo stato d’animo di una donna in “quella” situazione e non è certo questo il modo di descriverlo!)
Mi guardò. Poggiai la testa nell’erba ai suoi piedi. Lui restò fermo, immobile. Ero terribilmente conscia di essere inerme in sua presenza. Attesi, prima di parlare, che lui mi dicesse qualcosa. Doveva aver compreso il mio terrore! Non era forse visibile, nel mio corpo legato, la mia totale vulnerabilità? Attesi che mi dicesse qualche parola gentile, qualcosa per rassicurarmi, qualche premurosa mite parola per allontanare la mia paura. Tremavo. Lui non disse nulla. Non avevo il coraggio di alzare la testa. Perchè non mi diceva niente? Qualsiasi gentiluomo, certamente, mi avrebbe parlato per rincuorarmi con parole gentili, confortanti, distogliendo lo sguardo fisso dal mio corpo, e si sarebbe astenuto dal mettermi in imbarazzo.

Si tolse l’elmo. Lo gettò da una parte, nell’erba. Percepii le sue mani tra i miei capelli, senza crudeltà ma con indifferenza e decisione, come avrebbe potuto fare con la criniera di un cavallo. Sentii che mi tirava la testa all’indietro, all’indietro, all’indietro, fino a che, dopo avermi messo una manno sul ginocchio e tenendomi con la mano sinistra per I capelli, mi fece inarcare inginocchiata all’indietro, con la schiena dolorosamente incurvata e gli occhi spaventati che guardavano il cielo. Esaminò le curve del mio corpo. Sono abbastanza soddisfatta della mia bellezza. Poi mi tirò da un lato e mi fece allungare le gambe, per esaminare il mio aspetto lineare. Ero sdraiata sul fianco destro. Mi camminava intorno e mi guardava. Con un calcio mi fece protendere i piedi, affinchè la linea del mio corpo fosse più prolungata.
Si accovacciò accanto a me. Sentivo le sue mani sul collo. Passò il pollice su una screpolatura che il collare mi aveva procurato sul collo quando avevo cercato di liberarmi, prima. Mi bruciava. Ma la screpolatura non era profonda. Mi ero divincolata follemente. Mi bruciava (e abbiamo capito che ti bruciava! mica siamo deficienti!).
Toccò il mio braccio, l’avambraccio e le mie dita, muovendole. Toccava il mio corpo con fermezza, seguendone le curve. Mise una mano sulla mia schiena e l’altra di lato, così che premendo per qualche istante sentì il mio respiro.
Toccò le mie cosce e me le fece piegare, osservando i cambiamenti nella curva del polpaccio. Non sembrava proprio quello che avrebbe fatto un gentiluomo (e daje co ‘sto gentiluomo!). Giammai ero stata toccata prima dalla mano di un uomo come faceva ora lui; nessun uomo sulla Terra, ne ero certa, avrebbe mai osato toccare così una donna. Mi stava esaminando come un animale!
Ad un certo punto, mi fece voltare la testa e mi spinse due dita della mano sinistra nella bocca, frugando sulla lingua ed esaminando o miei denti. Avevo bei denti, bianchi piccoli e robusti. Avevo due carie, alle quali lui prestò poca attenzione. Egli aveva già visto, come avrei saputo più tardi, altre donne provenienti dalla Terra. Queste piccole cose possono essere usate per determinare l’origine terrestre. I Goreani raramente hanno carie. Non ero sicura del motivo per cui questo accadesse. In parte poteva essere spiegato per la dieta semplice, contenente pochi zuccheri; d’altra parte, almeno supponevo, la cultura anche può avere un ruolo in quanto è una cultura in cui lo stress chimico, altrove giudicato colpevole e disturbante, non è presente nella loro età prepuberale o puberale.
Il giovane goreano, come il giovane terrestre, incontra le sue difficoltà crescendo in una certa civiltà o cultura, e non è ritenuto implicitamente adatto a condizioni che riguardano gli inevitabili effetti della maturità come sospetto deplorevole o insidioso (Norman … lascia perdere il Tavernello!).
Egli mi aveva rivoltata sull’altro lato, e soggiogava la mia bellezza inerme con una simile ispezione. Ero sconvolta dalla disinvoltura e dalla scioltezza con cui mi maneggiava. Pensava forse che io fossi un animale? Pensava che io fossi una sua proprietà? Mi fece poi inchinare ai suoi piedi, e restai lì. Le mie caviglie erano incrociate e legate con sottile cuoio intrecciato. Le mie caviglie erano anche incrociate e legate in modo tanto semplice quanto sicuro. Sentivo l’erba sotto il mio corpo: sentivo che si strusciava sul mio fianco sinistro, quando il vento la muoveva. Mantenni i piedi allungati.

Mi guardò ancora per un po’. Quanto dovevo sembrargli bella, pensavo. Avvertivo la sua incredibile virilità, la sua virilità animale, così diversa dalla inibita, incompleta sensualità tanto decantata e tragicamente diffusa tra gli uomini terrestri. Per la prima volta nella mia vita sentivo di poter capire cosa può significare la parola “maschio”, e, mi spavento a dirlo, anche la torbida parola “femmina” (seeeeeeeeeeeee … ).
Quanto deve essere bello guardarlo, pensavo, restando legata, totalmente vulnerabile, inerme ai suoi piedi. Quanto deve essere eccitante poter vedere lo splendore della sua mascolinità, essere la sua femmina, prigioniera, inerme ai suoi piedi, essere il suo da fare, nella lussuria e nel piacere, e con gioia, come lui desidera, scappare inerme da lui, libera di poter recepire la sua volontà su di me! (ma io l’avevo capito che quello là ti attizza!)
Sentivo che mi girava intorno. Dovevo resistergli! Lui era una bestia! Mi ritrovai di nuovo seduta, il viso girato da un lato, ma la schiena non resse e il suo braccio sinistro, dietro di me, mi sostenne. Ritenevo inutile combattere. Con la mano destra vi fece voltare il viso verso di lui. Guardò i lineamenti delicati del mio volto. Il suo pollice mi teneva la mascella destra, il suo indice quella sinistra. Non potevo muovere il capo. Ero profondamente impallidita.
Il suo volto, ampio e grossolano, era brutalmente bello. I suoi occhi molto scuri, i capelli scuri, ispidi, lunghi. (come era l’alito?)
Mi disse qualcosa. Sentivo il suo alito sul viso. Tremavo, balbettavo.
“Per favore, per favore" dissi "non capisco la vostra lingua. Vi prego, slegatemi”.
Egli disse qualcos’altro.
"Non riesco a capirvi" dissi "Vi prego, slegatemi".
Mi sollevò, prendendomi per le braccia e mettendomi in piedi. Mi guardò in fondo agli occhi. La mia testa arrivava a stento al suo collo; il peso del mio corpo sembrava essere almeno la metà di quello dell’uomo con la tunica rossa. Le sue mani erano molto più grosse delle mie braccia. Le mie caviglie incrociate e legate sembravano volermi far cadere quando lui lasciò la presa; non riuscivo a stare in piedi da sola.
Egli disse qualcosa, forse una domanda.
"Non vi comprendo" ripetei. Mi diede una scrollata improvvisa. Sentivo la testa che mi si staccava dal corpo. Rifece la domanda.
"Non vi capisco!" singhiozzai. Mi scrollò ancora, rabbiosamente ma non con crudeltà. Poi mi lasciò. Legata com’ero, non potevo fare altro che crollare ai suoi piedi, sulle ginocchia. Guardai in su. Non avevo mai sentito niente di così forte. Si accovacciò accanto a me. Mi guardava intensamente.
Ancora una volta mi parlò. Scossi la testa, penosamente. Lo guardai.
"Imparerò qualsiasi linguaggio voi vogliate" mormorai piangendo, singhiozando, "ma in questo momento non capisco la vostra lingua".
Sembrò soddisfatto, o rassegnato dopo questo sfogo, e non era poco di guadagnato in un primo tentativo di comunicare con me. Non potevamo parlarci. Si alzò in piedi e guardò per aria. Non era contento. Non guardava più me. Alzai le spalle, un poco irritata. Non poteva vedermi. Non era colpa mia se non riuscivo a comunicare con lui! Ma poi, mentre lui guardava i campi e la roccia, io, seduta sui miei talloni all’interno del cerchio, rimisi giù la testa, miseramente. Ero piccola nell’erba, e sola. (che palle! ma sei con lui, mica sei sola!)

Ero inginocchiata inerme, una ignorante ragazza straniera, nuda e legata, che non riusciva a parlare al suo catturatore, in uno strano mondo. In quello stesso momento, dopo aver scrutato il terreno e la roccia, forse cercando indizi della mia identità, l’uomo alto con la tunica rossa si voltò verso di me. Era pomeriggio inoltrato. Lo guardai e tremai. Mi prese per i capelli e trascinò il mio ventre sull’erba fino ai suoi piedi. Giacevo impotente.
Seniti lo stropiccìo della spada liberata dal fodero.
"Non uccidetemi!" implorai, "Per pietà non uccidetemi!"
Rimasi impietrita, terrorizzata. Sentivo la spada ed ogni suo movimento lieve, non opponevo resistenza mentre mi liberava le caviglie.
Mi lasciò.
Prese la bisaccia e la borraccia che aveva portato e li agganciò stavolta alla cintura. Prese l’elmo. Arrivò alla lancia affondata nel terreno e la sollevò, riprendendo anche la spada e il concavo scudo ai suoi piedi. Appese lo scudo e l’elmo al manico della lancia, appendendoli dietro la spalla sinistra e tenendo con il braccio sinistro l’asta della lancia, tenendola saldamente. Poi, senza guardarmi, cominciò ad allontanarsi dal campo.
Lo guardai allontanarsi. Agitai i piedi e le mani legate fino a poggiarle dietro di me. Guardavo sopra il campo i segni della battaglia, gli scudi abbandonati, uno profondamente spaccato, le armi derelitte. Guardai la grande roccia alla quale, tramite il collare, ero stata incatenata. Stavo nel cerchio tracciato sul terreno. Il vento accarezzava l’erba e i miei capelli. Il cielo era scuro adesso. Singhiozzai. Sul lontano orizzonte vedevo tre lune. L’uomo era distante.
"Non lasciatemi qui!" gridai. "Non lasciatemi qui da sola!!"
Cercai di fuggire dal cerchio nel terreno, correndo dietro di lui.
"Per favore fermatevi!" urlai "Aspettate! Per favore, aspettate!"
Ansimavo per il respiro corto, inciampando, cadendo.
"Per favore, aspettate" gridavo.
Egli si voltò a guardarmi mentre gli correvo dietro. Mi fermai, con l’affanno. Ero nell’erba, a circa duecento metri da lui. Si voltò di nuovo e riprese a camminare. Penosamente, rotolando e inciampando, cominciai a correre. Egli si voltò ancora quando ero a circa venti metri da lui.
Mi fermai ancora. Sotto il suo sguardo, per una ragione che non mi era chiara, abbassai la testa. Lui continuava a camminare per la sua strada e io continuai a seguirlo. In un minuto o due lo avevo raggiunto, e mi attardavo dietro di lui a circa dieci piedi. Si fermò. Si voltò. Mi fermai e abbassai la testa. Egli riprese a camminare e ancora io lo seguii. Dopo qualche altro minuto, egli si fermò. Anch’io mi fermai, abbassando il capo.In quel momento si avvicinò a me, restando a meno di due metri da lui. Ero estremamente dritta, con la testa abbassata. Ero tremendamente cosciente della sua vicinanza, della mia nudità, dei suoi occhi su di me. Anche se ero una femmina terrestre, avevo una vaga idea del senso di attrazione e piacere che la vista di un corpo femminile può causare in un uomo. E sapevo di essere molto bella. Mise due dita sotto il mio mento e mi fece alzare la testa. Vidi i suoi occhi e mi affrettai a guardare altrove, temendo di incontrare i suoi. Con mio sgomento, mi accordi che avrei voluto che mi trovasse attraente come femmina. Mi guardò per un minuto o due e poi, dalla spalla tolse la lancia, sganciando lo scudo e l’elmo; dalla cintura tolse la borraccia e la sacca e poi mise tutto intorno al mio collo. Poi agganciò la cinghia e mi sistemò lo scudo sulla schiena. A momenti stramazzavo sotto il peso. Tenendo l’elmo per le cinghie con la mano sinistra e la lancia nella destra, egli si voltò e iniziò a sgambare attraverso l’erba alta.

Barcollando sotto il peso dello scudo, con la borsa e la borraccia intorno al collo, lo seguivo. Una sola volta si girò e, con la lancia, mi indicò la posizione e la distanza alla quale avrei dovuto seguirlo. Queste disposizioni variano, come imparai, da città a città e dipendono anche dal contesto e dalle condizioni.
In un mercato, affollato e nella calca, per esempio, una ragazza può seguire da vicino tanto quanto basta per premere contro la parte posteriore della spalla sinistra. Le ragazze raramente seguono dietro o sulla destra. Se è così posizionata è comunemente inteso come un segno di disfavore. Se più di una ragazza è impegnata, quella che segue più da vicino sulla sinistra è generalmente ritenuta come la favorita; le ragazze competono per questa posizione.
In un’area aperta, come un campo nel quale si passeggia, la ragazza è posizionata di solito cinque o dieci passi indietro e sulla sinistra. Se egli deve muoversi improvvisamente e lei no, costituisce un ostacolo all’azione di lui.
Lo straniero riprese a camminare. Portando il suo scudo, la borraccia e la sacca, a circa otto o nove passi dietro di lui, lo seguivo. Supponevo che avrei dovuto ricordarlo sempre. Sapevo che lo stavo tallonando. Quanto mi sembrava strano! Capivo così poco di quello che succedeva. (e qui parte il riassunto delle puntate precedenti con le relative pippe mentali della ragazza … ufffff… ho capito come Norman allunga il brodo!!!)
Mi ero svegliata, denudata e incatenata, in questo strano mondo. Degli uomini erano arrivati alla roccia dove ero trattenuta. Uno di loro aveva la chiave del collare. Erano indubbiamente venuti a prendermi. Ma chi mi aveva lasciata là per loro? E che cosa volevano da me? Queste erano le domande che mi tormentavano.
La parola 'Bina' era stata spesso pronunciata nelle loro domande.
"Var Bina!" essi avevano detto. Naturalmente, io non avevo capito. E loro, arrabbiati, si erano preparati a tagliarmi la gola. Ero stata tratta in salvo da un maschio, armato e nerboruto, che era capitato nel campo al momento giusto. Era stato, a giudicare dalle reazioni dei miei rapitori originali, inatteso e anche sgradito. Dalle sue reazioni avevo dedotto che egli non sapesse nulla degli uomini che aveva incontrato là, e si era comportato come con chiunque fosse vestito con una tunica rossa e un elmo. Sospettavo di essere parte di un piano, di un disegno che non capivo, che però era stato mandato a monte da un incontro accidentale.
Ma che voleva dire la parola 'Bina'? C’era qualcosa che avrei dovuto avere con me e che non avevo. Il piano, forse, era fallito già prima dell’arrivo dei due uomini alla roccia. Non ne avevo idea. Non ci capivo nulla. Ma forse il piano non era stato affatto sconvolto. Forse, anzi, io portavo questo segreto con me che era rimasto sconosciuto ai due uomini. Forse essi non avevano capito il modo in cui io potevo essere usata. Forse le loro informazioni erano incomplete o errate. Sospettavo che avrei dovuto essere uno strumento in qualcosa che non capivo. Non riuscirei a spiegare e nessuno potrebbe capire la mia natura o i miei scopi, semmai ne avessi, in questo mondo. Se fossi stata portata qui solo come donna nuda, poteva sembrare inutile avermi lasciata in un luogo selvaggio. Inoltre, era inutile chiedermelo così insistentemente; e poi perchè, se ero stata portata in questo mondo per un ovvio scopo degli uomini –per la mia bellezza–, dire che gli uomini si preparavano, a causa della loro rabbia, a porre fine alla mia vita? Sicuramente doveva essere ovvio per loro che io fossi entusiasta di fare qualcosa che loro volevano, che io fossi ansiosa di compiacerli. Se ero stata portata là solo pr la mia bellezza, sicuramente essi non si sarebbero comportati in quel modo. Rabbrividii, al ricordo del pugnale puntato alla gola.
Poi era arrivato lo straniero.
"Kajira canjellne!" aveva detto. Ero stata liberata dalla catena e dal collare. Un cerchio era stato tracciato sul terreno. Legata, ero stata gettata dentro il cerchio. Inginocchiata, avevo guardato quegli uomini che lottavano. E adesso, nuda e legata, trasportando il suo scudo, stavo seguendo il vincitore.
Mi tornavano in mente il suo vigore, la sua insolenza, la sua forza, la sua autorità. Ammiravo l’ampiezza delle sue spalle guardandolo camminare avanti a me. Ricordavo la semplicità e l’audacia con cui, dopo la vittoria, mi aveva esaminato. Ora stavo portando il suo scudo. Camminavo dietro di lui e alla sua sinistra. Ritenevo di dovermelo ricordare. Sapevo ovviamente che lo stavo tallonando. Pensavo a lui. Considerando che sarebbe sembrato inconcepibile sulla Terra che un uomo potesse essere così forte, così potente, e che una donna caminasse quasi pedinandolo, qui, in questo mondo, non sembrava né impossibile né strano.
C’erano uomini qui forti abbastanza da spingere una donna ai propri piedi percepivo una strisciante, profondissima eccitazione erotica, e forse una stranissima meravigliosa sensazione di femminilità. Non avevo mai incontrato due uomini come quelli, I primi due, e quello che stavo seguendo, il più forte dei tre, non voleva semplicmente una donna ai suoi piedi. Non avevo mai visto un uomo così. Non avevo mai nemmeno sognato che potesse esistere un uomo così! Non avevo mai avuto sensazioni così femminili, così agitate, in presenza di nessuno! Per la prima volta mi piaceva essere una donna.
Mi condannai da sola per i miei terribili pensieri. Gli uomini e le donne che conoscevo, come mi avevano insegnato, erano tutti uguali. Biologicamente, e in natura, il prodotto di centinaia di generazioni evolutive era la riproduzione e la storia di animali. Questo concetto doveva essere ignorato e ripudiato. Non suggeriva alcuna conclusione politicamente corretta.
Guardai in su le tre lune.
Non sapevo più a cosa credere o come vivere. Ma, come seguivo quell’uomo, camminando attraverso l’erba alta, sotto il chiarore delle meravigliose lune, trasportando il suo scudo, letteralmente tallonandolo, così forte come un animale, sua prigioniera, nuda e legata, sentivo paradossalmente un fantastico senso di libertà, di liberazione psicologica. (adesso cominciamo a ragionare … bella sensazione) Avrei voluto correre da lui e poggiare la testa sulle sue spalle.

Per ore e ore camminammo nell’erba. A volte inciampavo e cadevo. Lui si fermava non lontano da me. Avrei voluto sforzare i miei piedi, barcollando sotto il peso dello scudo,e correre per raggiungerlo. Ma non riuscivo ad andare più veloce. Il mio corpo non era allenato a simili scarpinate. Ero una ragazza terrestre. Cadevo. Il mio respiro era corto, le mie gambe deboli. Ed ero su terreno erboso. E inoltre il peso dello scudo si faceva sentire sulla spalla. Dopo un po’ lo sentii fermasi vicino a me, guardando in basso. Lo guardai. Provai a sorridere.
"Non riesco ad andare più veloce" mormorai. Sicuramente lui poteva vedere la mia spossatezza, la mia debolezza. Non ce la facevo più. Vidi che si slacciava la cinghia. Affrettai il passo. Mi guardava scontento. Mi voleva prendere a cinghiate! Si riallacciò la cintura. Si voltò in avanti. Ripresi a seguirlo.
Verso mattina attraversammo anche un piccolo torrente. L’acqua era molto fredda sulle mie caviglie e polpacci. Intorno al torrente c’era una boscaglia e alcuni alberi. La pianura era interrotta occasionalmente da alcuni alberi, molti di questi dalla chioma piatta. In quella che supponevo fosse un’ora o quasi prima dell’alba, lui si fermò in un boschetto di alberi, vicino al piccolo ruscello. Mi tolse la sacca e la borraccia dal collo e lo scudo dalle spalle. Caddi per terra fra gli alberi. Mossi un po’ i polsi, poi persi conoscenza. Dopo qualche istante venni svegliata a scossoni. Mi ficcò in bocca una manciata di carne secca. Sdraiata su un fianco, masticai e inghiottii. Non avevo realizzato quanto fossi affamata. Dopo un istante mi fece mettere in posizione seduta, reggendomi con la mano sinistra dietro la schiena, sostenendomi, e mi spinse la borraccia fra i denti. Bevvi lunghe sorsate. Mi stava abbeverando. Mi sdraiai di nuovo sul fianco. Mi sollevò fra le braccia senza sforzo facendomi sussultare e mi portò accanto ad un albero. Appena ebbe legato la mia caviglia destra all’albero, sopraffatta dalla fatica, caddi addormentata. (beh …. tutto sommato, almeno per le cose essenziali tipo mangiare e dormire, non mi pare indispensabile parlare lo stesso linguaggio, ci si intende anche fra sordomuti… :P )

Mi sembrava di essere nel mio letto. Si, proprio nel mio letto. Mi stiracchiai in un piacevole tepore. Mi svegliai di soprassalto. Ero in un boschetto, in un mondo alieno. Faceva caldo e il sole, alto, filtrava attraverso i rami degli alberi. Mi guardai la caviglia: era legata. Entrambe le caviglie avevano impressa nella pelle in profondità I segni dei lacci di cuoio intrecciato con cui ero stata legata in precedenza. Me le strofinai. Mi guardai. La caviglia destra, con un corto laccio di cuoio, era ancora legata a quel piccolo albero. Appoggiai le mani sulle ginocchia, tenendo la schiena accostata all’albero. Ero ancora nuda. Sempre con la schiena poggiata all’albero, piegai e gambe in su e appoggiai le mani sulle ginocchia, e sulle mani appoggiai il mento. Avevo visto quell’uomo seduto, con le gambe incrociate, a pochi passi di distanza. Stava spalmando un sottile strato di olio sulla lama della spada.
Non mi guardava. Sembrava totalmente concentrato nel suo lavoro.
Sembrava essersi accorto del mio risveglio, dei miei movimenti, ma non mi guardava. Ero perplessa. Non ero abituata ad essere ignorata, in particolar modo dagli uomini. Erano sempre stati ansiosi di compiacermi, di fare qualsiasi cosa io volessi.
Non avevo ancora realizzato bene che in questo mondo era esattamente il conrario, che le donne dovevano compiacere gli uomini e dovevano conformarsi ai loro desideri e capricci, indipendentemente da tutto.
Lo osservai. Non era poi così brutto. Mi domandavo se fosse mai stato possible costruire un significativo rapporto con lui. Avrebbe dovuto imparare, ovviamente, a rispettarmi come donna.
Terminò di oliare la lama. Strofinò la lama con uno straccio, lasciando solo un sottile diffuse strato di olio.
Ripose lo straccio e l’olio in un piccolo scomparto della bisaccia. Si pulì le mani dal grasso sfregandole sulla tunica. (va che zozzone! ma non c’era un ruscello là vicino?)
Rinfoderò la spada. Poi infine mi guardò. Gli sorrisi. Volevo fare amicizia. Picchiettò sulla sua caviglia destra e mi fece segno di avvicinarmi a lui. (io faccio sempre questo gesto con i miei gatti ma non mi cagano per niente! sigh! Forse dovrei provare con una schiava .. ghghgghg)
Mi piegai in avanti per sciogliere il sottile laccio di cuoio che mi assicurava all’albero. Dovevo prima slegarmi la caviglia. Ma con una parola brusca e un gesto mi fece capire che non dovevo liberare la caviglia, bensì rimuovere prima il nodo intorno al tronco dell’albero.
Mi aveva presa per una stupida? Non è forse vero che qualsiasi ragazza sa come slegarsi? Ma ero terrestre e non conoscevo questo aspetto. Lottai, con le mie piccole dita, intorno ai nodi. Lavoravo intensamente, sudata spaventata e preoccupata di non farlo attendere troppo a lungo. Ma lui sembrava pazientare. Sapeva che i nodi fatti da lui non potevano facilmente essere sciolti da una come me.
Mi avvicinai a lui, tendendogli con la mano sinistra il piccolo legaccio. Lui lo rimise nella bisaccia e mi indicò dove dovevo posizionarmi, davanti a lui e alla sua destra. Mi inginocchiai e gli sorrisi. Pronunciò parole secche e aspre. Immediatamente mi inginocchiai nella posizione che avevo imparato il giorno prima, esattamente come mi avevano detto di fare, seduta sui talloni, schiena dritta, mani sulle cosce, testa in su, ginocchia ampiamente aperte. Mi guardò soddisfatto.

Ma come avrei potuto fare amicizia con lui, così inginocchiata? Come avrei potuto pretendere rispetto come persona, se poi mi posizionavo davanti a lui così come lui desiderava? Quanto era possibile che io, inginocchiata, graziosa e piccola, così esposta e vulnerabile, così inerme e indifesa, che lui mi accettasse come sua pari? (hai probabilità molto vicine allo zero assoluto, scema!)
Mi piegai in avanti e presi con i denti un pezzo di carne dalla sua mano. Non mi permise di toccarlo con la mano. Quanto mi sentivo miserabile. In questo mondo non mi era permesso neanche di mangiare da sola!
Quando ebbi mangiato qualche boccone di carne, mi diede da bere, ancora dalla borraccia. Avrebbe dovuto imparare che io ero una persona sua pari, decisi. Glielo avrei mostrato io.
Lasciai la posizione che mi aveva ordinato. Sedevo nell’erba dinanzi a lui, con le ginocchia tirate su. Sorrisi. (secondo me, stai cercando rogna … e l’hai trovata!)

"Signore" gli rivolsi la parola, "so che non potete capire la mia lingua, nè io la vostra, ma forse, dalla vostra voce, dal tono, potete capire qualcosa delle mie sensazioni. Mi avete salvato la vita ieri. Mi avete tratta in salvo da un enorme pericolo. Vi sono molto riconoscente per questo."
Credevo che la mia testa si sarebbe staccata dal collo, per la repentinità con cui mi colpì! Lo schiaffo a mano aperta che presi sulla guancia sinistra doveva essere stato sentito a centinaia di piedi di distanza; ruzzolai, dolorante, strisciando per almeno una ventina di piedi. Caddi nell’erba; non riuscivo a vedere; luci nere, violente, vellutate, luci profonde, stelle, sembravano esplodermi nella testa. Mi schiaffeggiò ancora; caddi di nuovo nell’erba e diedi di stomaco. (te l’avevo detto che avresti trovato la rogna che cercavi!)
Sentii una parola, un comando. Lo intuii. Lo avevo già sentito prima. Immediatamente ripresi la postura che avevo osato dismettere prima e di nuovo inginocchiata, stavolta in preda al terrore, davanti allo strano muscoloso uomo che stava davanti a me con le gambe divaricate e le braccia incrociate.

Mi usciva sangue dalla bocca, altro sangue che stavo perdendo. La mia visione era chiara: non potevo credere al martellio del mio cuore. Mi aveva schiaffeggiata. Ero inginocchiata, terrorizzata. In quel momento non mi ero resa conto di quanto la mia disciplina fosse stata tenue rispetto alla gravità della mia offesa. Avevo osato parlare senza permesso, e in più avevo abbandonato la postura senza permesso. Più semplicemente, ero stata sgradevole per un uomo libero. Se avessi conosciuto il mondo nel quale ero inginocchiata, sarei stata felice di non essere stata frustata!
In seguito realizzai che la tolleranza era stata usata per me, che non avevo avuto molta familiarità con il mondo in cui mi ero trovata, altrimenti non sarebbe stata usata. Più tardi, questa tolleranza non ci sarebbe stata più.

Ero inginocchiata dinanzi all’uomo. Egli stava di fronte a me, le gambe divaricate, le braccia incrociate, guardandomi dall’alto. Erano sparite da me in quell’istante, col sangue che mi usciva dalla bocca, tutte le mie illusioni. Non potevo più ingannare me stessa sul fatto di poter essere uguali. La ridicolaggine di questa illusione era chiara perfino a me. La pateticità di questa pretesa era svanita davanti alla semplice, incontrovertibile verità biologica che era stata impressa su di me, alla luce di una incontrastata dominanza maschile che lui, fisicamente e mentalmente, aveva scelto di esercitare su di me, una femmina. Penso a quanto a quegli uomini doveva sembrare bella una donna prostrata ai loro piedi.
Mi chiedevo, spaventata, se fosse ai piedi degli uomini in generale oppure ai piedi di un uomo come questo, che le donne appartenevano, e se questo era l’ordine naturale della natura. Il pensiero di dominio e sottomissione, molto diffuso nel regno animale, mi balenava per la testa come universale anche fra i primati. Mai prima d’ora ero stata così profondamente e chiaramente consapevole di queste parole.
Guardai in su verso di lui. Ero atterrita. Le mie parole, era fin troppo chiaro, avevano scelto di negare e sovvertire la sua biologia. Queste parole, presumevo, non avrei mai dovuto pronunciarle. Davanti a lui ero inginocchiata e atterrita. (normaaaaaaaan! ci hai stufato a ripetere sempre che ‘sta disgraziata sta inginocchiataaaaa!) Per mio sollievo, egli si voltò. Restai ancora immobile, spaventata a muovermi, assolutamente cristallizzata in quella elegante e indifesa postura, così vulnerabile ed esposta, che più tardi avrei imparato chiamarsi la posizione della pleasure slave goreana.

Lui guardò l’altezza del sole. Era tardo pomeriggio. Si sdraiò per dormire. Io non osavo abbandonare la postura. Non ne avevo avuto il permesso. Forse mi aveva lasciata in quella posizione per punirmi. Non ne avevo idea. Ero solo spaventata di abbandonare la postura. Mi dissi, ovviamente, che questo era razionale, che lui poteva svegliarsi all’improvviso e non trovarmi in posizione, o che poteva sonnecchiare con un occhio solo, scrutandomi per vedere cosa facevo e se mi muovevo. Ma nel mio cuore sapevo bene che non avrei mai abbandonato la posizione senza il permesso di farlo, perché non mi aveva esonerato da quel comando. Ero molto spaventata da lui. Ero spaventata dalla posizione. Ma gli stavo obbedendo.
Per più di due ore, più o meno, restai inginocchiata in posizione. Poi lui si risvegliò. Mi guardò, ma non mi esonerò dalla posizione. Restai così, in questa posizione simbolica di sottomissione femminile. Si era fatta tarda sera.
Prese la bisaccia e la borraccia e le agganciò alla cintura. Rimise la spada nel fodero, dietro la spalla. Si mise l’elmo. Alzò infine lo scudo e la lancia. Lo guardai. Ma non dovevo portare io i pesi? Non dovevo portare il sacco e la borraccia? Non dovevo portare lo scudo?
Con uno schiocco di dita e un movimento della mano egli mi esonerò dalla postura. Riconoscente, mossi il mio corpo. Mi stiracchiai. Lo guardavo mentre mi osservava stiracchiandomi, come un gatto. Arrossendo, mi fermai. Ad una sua parola pronunciata ad alta voce, continuai a stiracchiarmi, lussuriosamente, sfacciatamente e in modo assolutamente impudente. Lui osservava le movenze del mio corpo mentre mi strofinavo le gambe, per far riprendere la circolazione; erano irrigidite e contratte, come il resto del mio corpo, a causa della posizione che avevo dovuto mantenere per disciplina dopo i ceffoni. Sapevo, anche se difficilmente lo avrei ammesso, che il mio stiracchiarmi e i movimenti delle mani sulle mie gambe, erano eseguiti in maniera differente da quella che avrei fatto se fossi stata da sola. Realizzai, anche se non lo avrei mai ammesso, che stavo mostrando il mio essere femmina dinanzi a lui.

Mi derise. Arrossii e mi voltai di lato nell’erba, irritata. Il corpo, tenuto troppo a lungo in una qualsiasi posizione, ovviamente, anche la più naturale, comincia a diventare rigido e contratto.
Ad una ragazza, incidentalmente, nella posizione della pleasure slave goreana, ma che non sia tenuta in quella posizione per disciplina, nel qual caso resta rigida, è consentita una tolleranza molto esigua che può sfruttare, senza rompere la posizione. Qualche volta, se viene autorizzata, può alzarsi un pochino dai talloni, altre volte può muovere le mani sulle gambe, può spostare leggermente le spalle o il ventre o la testa, può muovere gli occhi o parlare e ridere, e ogni pollice, ogni centimetro della sua vitalità deve parlare di devozione e compiacenza.
Qualsiasi ragazza sa che un corpo interessante è un corpo in movimento. Anche nell’ambito della apparente restrittività della posizione di pleasure slave, una ragazza può disegnare una sottile, provocante melodia di movenze. L’interazione fra la coercizione della posizione e le sue gesticolazioni dà alla posizione stessa un’incredibile potenza e bellezza. Si, potenza. Più di un Padrone, credo, sia stato irretito dalla bellezza di chi gli era inginocchiato davanti. È una delle atroci delizie della dominazione esporsi completamente, e non solo marginalmente, ai pericoli della bellezza femminile, mantenersi integri, attingere assoluta pienezza di piacere da lei ma anche resistere alle sue grazie, per prendere tutto da lei e continuare a farla restare inginocchiata.
Ero sdraiata sul prato.
Altre ragazze avrebbero combattuto con le fruste per ottenere un Padrone così.
Guardai in alto verso il cielo. Era più scuro adesso, oltre gli alberi. L’uomo in cui compagnia ero, e in cui potere ero, aveva lasciato il boschetto. Non avevo paura che non tornasse. Non era arrabbiato con me. E in ogni caso lo avevo visto guardarmi e l’avevo sentito ridere.
Sulla Terra, avevo poco interesse per i ragazzi (bugiarda! ma se non pensi altro che a ciurlare!), ma mi piaceva l’ammirazione che avevano per me. Ne avevo avuti alcuni, con svariati appuntamenti, in passato. Non mi interessava che i ragazzi mettessero le loro bocche sulla mia. Avrei voluto ritornare indietro, o dire loro, sembrando offensiva, un fermo "No" loro si sarebbero scusati, balbettando, arrossendo. Forse ero arrabbiata? Li scusavo, semplicemente. Avrei dovuto perdonarli? Avrei potuto riconsiderare di uscire con loro? Forse. Ma quale specie di ragazza l’avrebbe pensato?
Ero sdraiata nell’erba e sorridevo di me stessa.
Mi chiedevo che razza di donna fossi. Qui avevo cominciato a suscitare in me sentimenti che non avevo mai provato prima. Torbidamente avevo cominciato a sentire cosa prova una donna nel darsi completamente ad un uomo. Pensavo allo straniero. Ridevo di me stessa. Non era di certo un ragazzo.
Con i ragazzi avevo sempre sentito di mantenere il controllo, ma con lo straniero, uomo potente nel cui dominio mi trovavo, sapevo di non avere il controllo. Lo aveva lui il controllo, completamente. Alla sua minima parola avrei voluto scattare per servirlo. Quanto furiosi, quanto gelosi avrebbero dovuto essere i ragazzi che mi avevano vista tanto altezzosa, bella e giovane da non mostrare interesse nè da farsi impressionare, impaziente ora di scattare allo schioccare delle dita di un altro, un vero uomo! Quanto lo avrebbero odiato o temuto! Quanto gli avrebbero invidiato il suo dominio sulla bellezza! Quanto era perfettamente controllato, come loro non avrebbero saputo fare! Ma loro non mi piacevano quanto lui!
Giacevo nuda nell’erba (normaaaaaaaan! ma non è che stai sclerando??? stai sempre a ripetere le stesse frasi!!! Non mi pare il caso di sottolineare, anche perché dall’inizio del libro ad ora non mi pare che la donzella sia passata da Onyx!!!) in quello strano mondo, nel quale mi trovavo in balìa di un uomo che non avrei potuto sognare fosse un altro. Era distaccato, sprezzante, tracotante … troppo bello per essere un uomo. Avevo paura solo di non compiacerlo abbastanza, essendo in suo potere. I sentimenti mi si agitavano dentro come non avevo mai provato prima. Lentamente stavo cominciando a capire cosa significa essere una femmina completamente catturata da un maschio. Ma mi chiedevo quante probabilità avevo di darmi a lui. Non mi sembra che mi avesse accordato questo onore e poteva non farlo.
In questo mondo (di ladriiiii …mi pare Antonello Venditti!) sembrava che gli uomini prendessero tutto ciò che volevano. Non potevo sapere, in questo mondo, che la profferta della mia verginità (azz ... *_* ) poteva non incontrare il suo consenso. Ridacchiai. Sospettavo che poteva non essermi consentito, in questo mondo, scegliere a chi darla. Più probabilmente, immaginavo che sarei stata scelta anche contro la mia volontà, da chi semplicemente voleva prendermi. (e finalmente l’hai capita che, se non vuole lui, quello non ti si tromba nemmeno se parli cinese antico, eh?)
Seniti l’uomo che tornava. Mi girai appoggiandomi sul gomito. Si era fermato vicino a me. Lo guardai. Ma non mi ordinò di stendermi sulla schiena; nè mi aprì le gambe con un calcio. (seeeeeeeee … ti piacerebbe!)
Piuttosto fece un gesto che mi indicava di alzarmi. Lo feci.
Ero dritta dinanzi a lui, come sapevo che a lui piaceva. Sulla Terra non ero mai stata così dritta. In questo mondo sapevo cosa si aspettava da me. In questo mondo non sapevo che cosa ero. Ma avevo capito che, qualsiasi cosa io fossi, dovevo starci al meglio. Lo feci. Faceva parte della mia obbedienza.
Non si mosse ma rimase fermo, poggiato sulla lancia. Non mi presto una grande attenzione. Ero semplicemente là, assoggettata a lui, aspettando una sua parola o un suo gesto.
Dopo un po’, egli si mosse intorno e con il piede cancellò le tracce del nostro accampamento, i piccoli segni di un soggiorno nel boschetto. Non aveva acceso il falò. Poi si fermò di nuovo vicino a me, appoggiandosi alla lancia. Ancora una volta non mi prestò attenzione. Restai ferma. Restai dritta. Non osavo ovviamente parlare, o in qualsiasi modo attirare la sua attenzione. Non volevo essere di nuovo schiaffeggiata o punita. Restavo lì, ignorata. Lo guardavo. Era proprio buio, ora. La mia mente correva rapidamente. Contrariamente al giorno prima, non avevamo camminato molto durante il giorno, ma avevamo passato le ore di luce nella piccola radura, a pochissimi passi di distanza, nascosti sotto gli alberi , con i rami intrecciati che facevano da copertura. Ora che iniziava la notte, egli prese le armi e cancellò tutti i segni della sosta. Come aveva cancellato i segni del soggiorno, così prese altre precauzioni, facendomi capire (che bello il gioco dei mimi!) che eravamo in una regione che poteva esserci ostile, che attraversavamo a nostro rischio un paese nemico. Rabbrividii. Mi guardavo intorno con apprensione, guardavo le ombre degli alberi e dei rami. Contenevano forse nemici armati che stavano per aggredirci? Avremmo potuto cadere in un’imboscata?

Ci fu un fruscio di rami spezzati nel boschetto che attirò l’attenzione dell’uomo. Quasi mi sfuggì un grido di paura. Caddi miseramente sulle ginocchia. Provai a reggermi la gamba sinistra con la mano, per sollevarla, ma, con la punta della lancia, egli mi spinse in avanti. Ondeggiai dolorosamente nell’erba. Il colpo di punta non era stato per niente leggero. Scivolai all’indietro. Ero atterrita. Strisciavo proprio dietro di lui, nascondendomi dietro di lui, con un ginocchio nell’erba. Provai a sbirciare oltre il suo corpo. Se avessi avuto un’arma, un’arma progredita, anche tipo una piccola pistola con cui avrei potuto minacciarlo, tenendola a due mani, avrei potuto fargli paura, ma non avevo nulla, assolutamente nulla. Non avevo nulla ed ero assolutamente vulnerabile. Non avevo nemmeno uno straccio di indumento che mi proteggesse il corpo. La mia unica difesa era l’acciaio e l’abilità dell’uomo che stava tra me e quello che, da qualche parte nel boschetto, aveva fatto scricchiolare i rami.
Dipendevo completamente da lui. Avevo bisogno di lui. Senza di lui ero disarmata, totalmente indifesa. Mi addolorava il pensiero di come le donne venissero difese in questo mondo. Immaginavo che forse dovevano avere una piccolo spada, maneggevole da loro perchè leggera e sottile, un pugnale o una daga, ma che sarebbe accaduto se un aggrssore, come l’uomo nel cui potere ero, fosse stato più rapido a prendere la sua arma? Al momento non sapevo che alle ragazze come me non era permesso avere armi nè leggere nè pesanti, tanto meno uno stiletto per donne. Le ragazze come me eano completamente dipendenti dalla protezione di un uomo, e solo se lui aveva scelto di farlo. Mi portai una mano alla bocca. Avevo visto, nel buio, emergere dai rami quello che prima pensavo fosse un grande serpente, a causa dei movimenti sinuosi, ma non era un serpente. Pensavo che, vedendolo strisciare sul terreno, si potesse trattare di un grosso lucertolone.Poi, appena il chiaro di luna attraversò i rami degli alberi, vidi il muso e il collo senza distinguerli, ricoperti di pelliccia, lunghi e spessi.

I suoi occhi catturavano la luce e la riflettevano come rame incandescente. Ringhiava e ansimava. Aveva sei zampe. Poteva essere lungo circa venti piedi, forse pesava sui cento chili. Si avvicinava sinuosamente, sibilando.
L’uomo parlò dolcemente alla bestia. Teneva però la lancia puntata. Cominciò a girargli intorno, tenendo sempre la lancia rivolta verso la bestia. Io mi mantenevo dietro l’uomo. Poi la bestia sparì tra le ombre degli alberi.
Collassai ai piedi dell’uomo, con raccapriccio. Non mi sgridò. Non mi punì. Non sembrava particolarmente spaventato dalla bestia ma io non ero tanto coraggiosa quanto lui, che aveva già cacciato simili animali, e dunque, come appresi più tardi, aveva familiarità con le usanze di quelle bestie. La bestia però non ci aveva inseguiti. Di solito una bestia esamina la vittima di nascosto, e poi, a meno che non sospetti una trappola, se la vittima fosse legata, magari una ragazza bloccata usata come esca, fa un veloce inatteso attacco per ucciderla. La bestia aveva percepito un altro odore, probabilmente quello di un tabuk, una piccola antilope unicorno, suo cibo preferito, e sulle sue tracce si era lanciata distraendosi.

Quindi la bestia era un cacciatore instancabile ma monotono. Addomesticata, veniva spesso usata come battitore. Una volta che abbia annusato l’odore, si mette sulle tracce e incalza la preda senza pietà. L’evoluzione, in questo caso, fra l’altro ha selezionato la tenacia. Questa efficiente creatura, naturalmente, dava il meglio di sè nelle battute di caccia. Fortunatamente il nostro odore non era quello più forte fra quelli sentiti nella notte dalla bestia, appena uscita dalla tana. Se fosse stato là non ci sarebbero stati comportamenti strani. Era chiamato sleen. Non sapevo se un simile animale esistesse davvero.
Ero inginocchiata ai piedi dell’uomo, con il lato destro della mia testa sulla sua caviglia. Pensai a quanto poteva essere pericoloso trovarmi in quel mondo. Ero completamente senza difese, inerme. (a 90° … direi proprio di si!). In un mondo come quello, senza un uomo come quello che mi proteggesse, potevo essere cacciata, e sbranata a morsi da animali feroci. Avevo bisogno di un uomo come quello che mi proteggesse.
Lo guardai dal basso. Egli doveva proteggermi e io avevo bisogno della sua protezione. Avrei pagato qualsiasi prezzo per la sua protezione. Nei suoi occhi vedevo esattamente quale era il prezzo che lui voleva (seeeeeee … ti piacerebbe eh?). Calai il capo. Quanto mi spaventava un mondo in cui c’erano uomini e bestie simili! Il nome di questo mondo era Gor.

Mi indicò di alzarmi e io mi rimisi in piedi, dritta, atterrita, e lui mi osservò. Aveva già finito di cancellare le tracce della nostra piccola sosta. Lo presi per un avviso che eravamo pronti a lasciare questo posto. Non incrociai il suo sguardo. Non osavo farlo. In sua presenza, a parte la mia paura e la vulnerabilità, sentivo per la prima volta in vita mia una profonda e irresistibile e indescrivibile sensazione. Questa sensazione aveva qualcosa a che fare con la sessualità, la sua virilità così forte e dominante, e la mia femminilità così fragile, così insicura e così alla sua mercè. Ero confusa, sbigottita, inquieta. Volevo essergli gradita. Volevo piacergli! Si! (ghghghggh … il risveglio degli ormoni!) Sarebbe stato possibile?
Difficile immaginare questa situazione. Io, una ragazza terrestre, indifesa prigioniera di un abile e robusto guerriero barbaro, avrei potuto piacergli come donna? Si, è proprio così. Disprezzatemi, se volete. Non mi oppongo. Non mi vergogno. Volevo piacere a quella bestia dominante. Per di più, volevo piacergli non soltanto per paura ma anche, incredibile forse per le vostre menti, per un inesplicabile senso di gratitudine per il dominio che (per una ragione che non capisco e nonostante la mia cultura terrestre) trovavo stupendo. Gli ero riconoscente per la sua forza e orgogliosa per essere l’oggetto inerme su cui avrebbe potuto esercitarla. Trovavo queste sensazioni profondamente inquietanti e intimamente esaltanti. Mi alzai in piedi. Una piccola ragazza terrestre, vergine, educata ed erudita, intelligente e di buona famiglia (ma che ti stai mettendo in vetrina?), “desiderava” piegarsi nuda nell’erba ai piedi di un simile uomo, lui!
Alzò la testa e guardò lontano da me, oltre gli alberi.
Ero ansiosa di caricarmi il suo scudo, di avere il suo peso disposto sulle mie piccole spalle, di potergli servire ancora come era già successo di accollarmi il suo desiderabile peso, di tallonarlo, ma lui non mi faceva più barcollare sotto il notevole peso. Ora egli si trovava in un paese ostile. E doveva tenere con sé lo scudo, come anche la lancia e la spada.
Avrei voluto chiedergli in ginocchio di stuprarmi.Girò a sinistra verso una piccola palude. Lo seguii celermente.

Non si era allontanato molto.
Camminavo dietro di lui nella palude e mi criticavo per la mia debolezza. Quanto mi odiavo! Quanto avrei dovuto migliorare e sforzarmi di essere più forte! Così debolmente avevo evitato la perdita della mia individualità, il rispetto di me stessa. Nella palude, al buio, in mezzo agli alberi, con lui, stavo quanto meno compromettendo la mia identità e integrità! Io, una ragazza terrestre, avrei voluto concedermi a lui, un rozzo barbaro! Non ero forse un individuo libero, una persona? Non avevo dunque orgoglio? Quanto mi rendeva furiosa con me stessa tutto ciò. Sapevo che, nella palude, se solo mi avesse toccata con una mano la spalla, mi sarei gettata tremando, gemendo, indifesa, eccitata, nell’erba ai suoi piedi. Avrei voluto contorcermi davanti a lui ad ogni suo più piccolo tocco. Quanto ero confortata nel sapere che non potevo sfuggire a questa degradazione! Avevo una gran fame (si certo … ma di cosa? looool). Perché non mi aveva presa nella palude? Non gliene importava nulla dei miei sentimenti? Non gli piacevo abbastanza? (aveva già scopato?)
Si voltò e, con gesti silenziosi, mi avvertì di rimanere immobile e muta.
Rimanemmo ai margini degli alberi.
Avvicinandoci, nel buio potemmo scorgere una ventina di fiaccole. Ero spaventata. Non sapevo che genere di uomini potessero essere là.
C’erano circa una settantina o ottantina di uomini in corteo, che sembravano fare una cordata. La lunghezza della linea di marcia era circa quaranta o cinquanta yards, e di larghezza quasi dieci yards.
Dieci uomini armati, su ciascun lato, affiancavano la marcia. Erano loro che portavano le fiaccole.
Cinque uomini armati precedevano il corteo, tre lo chiudevano. Una ventina di uomini sempre armati, qua e là, occupavano varie posizioni durante l’avanzata. Nella sfilata, c’erano anche due piattaforme e un carro che la seguiva. Le piattaforme erano bianche e venivano trasportate in spalla da un manipolo di dieci uomini; il carro era scuro ed era trascinato da due grandi e grosse e pelose creature simili a buoi, guidati da due uomini.

Gli uomini che trascinavano le piattaforme e quelli che conducevano i dinoccolati e pelosi animali erano vestiti come quelli che affiancavano il corteo e quelli che erano in cima ad esso.
La processione si avvicinava. L’uomo che mi dominava scivolò svelto dietro un gruppo più folto di alberi. Naturalmente, io mi affrettai a seguirlo. Non sembrava disturbato o sorpreso dalla presenza del corteo. È come se lo aspettasse, o forse lo attendesse, o come se avesse esplorato proprio per quello.
Le figure in marcia si stavano avvicinando a noi. Eravamo nascosti fra i rami, in perfetto silenzio. Il corteo si avvicinò agli alberi. Potevo vedere, sopra la prima piattaforma, cinque figure di donne; sulla seconda c’erano alcuni cestini e scatole, coperte da pelli lucide; nel carro, sotto alcuni stracci, c’erano altri contenitori più semplici e grossi in apparenza, e pali e materiale da accampamento, e armi e barili pieni di liquido (azz … ma hai la vista a raggi X per sapere cosa c’è dentro i barili?).
Ci ritirammo un po’ di più in mezzo agli alberi.
Il corteo si stava avvicinando ancora di più. Il mio rapitore aveva impugnato lancia e scudo. Stava dietro di me e appena alla mia destra. La sua mano era stretta sulle armi. Alla luce delle fiaccole, guardavamo il corteo che si approssimava.
Ero sgomenta, sembrava così barbaro.
Come ci sono umani diversi, in questo calmo e barbarico mondo ci sono uomini così diversi da quelli che conoscevo. Mi chiedevo come ci ero arrivata là, e che cosa avrei potuto fare.
L’avanguardia della processione era vicinissima. Potevo vedere le armi di quegli uomini le tuniche scarlatte, gli elmi e gli scudi, non rifiniti nè decorati, come quelli del bruto che mi aveva presa. Lui non sembrava voler rivelare la sua presenza.
All’improvviso mi sfuggì un grido. Il mio corpo tremante si era mosso. Ma mi paralizzai subito. La lama del suo coltello era puntato alla mia gola. La sua mano mancina, grossa e pesante, mi tappava con fermezza la bocca. Non potevo emettere nessun suono. Con la lama alla gola non potevo neanche dimenarmi. Rimasi così assolutamente bloccata. Forse quegli uomini potevano salvarmi da lui che li riteneva nemici e intrusi! Sicuramente non avrebbero potuto essere peggiori di quel bruto che mi aveva catturata. Non erano gentiluomini o forse lo erano. Lui aveva combattuto con ferocia per possedermi; candidamente, dopo la vittoria, aveva valutato le mie carni; mi aveva lasciata legata per ore; mi aveva caricato il peso del suo scudo e mi faceva camminare dietro come un animale; mi aveva legata e mi aveva punita! Non mi aveva certo trattata con giustizia come una persona libera quale ero! Volevo gridare, attirare l’attenzionendi quegli altri uomini. Magari mi potevano salvare! Potevano forse farmi tornare sulla Terra, in qualche modo, o mettermi in contatto con chi poteva negoziare per il ritorno al mio mondo nativo.
Vidi le donne trasportate sulla piattaforma bianca. Erano abbigliate molto graziosamente. Sembrava ovvio che quegli uomini tenessero le donne nel giusto rispetto, attribuendo loro la giusta considerazione, non trattandole come animali.
Avevo perciò deciso rapidamente, audacemente, di gridare, per poter avere con il mio gesto risoluto un ausilio. Ma c’era stato quel maledetto fremito che aveva anticipato la mia decisione. Ora avevo un coltello puntato alla gola. Non gridavo più. La sua mano istantaneamente mi aveva tappato la bocca, con fermezza e decisione, ed ero stata sospinta contro la tunica e la cinghia. Non potevo più emettere un suono. Non potevo più neanche dimenarmi. Potevo solo sentire la punta del coltello puntata alla gola.
L’avanguardia della processione ci oltrepassò.
Al di sopra della larga mano dell’uomo che mi chiudeva la bocca, rendendomi inoffensiva, potevo vedere una portantina che trasportava le ultime donne. C’erano cinque donne, ragazze. Quattro di esse erano a piedi nudi ma vestite di un morbido classico bianco.

Curiosamente, la bellezza veniva giudicata dalle vesti, ed erano a piedi scalzi. Non portavano veli. Avevano capigliature more e, ai miei occhi, sorprendentemente belle. Indossavano quello che sembrava essere un cerchietto d’oro intorno al collo, e braccialetti dorati al polso sinistro. Erano inginocchiate, o sedute, o sdraiate ai piedi di una sedia curule bianca, piazzata sulla piattaforma. Su questa sedia, in grazioso abbandono, era seduta un’altra ragazza dall’aria annoiata, di cui non ricordo bene le caratteristiche perché indossava una guaina con dei veli. Trasalii nel vedere la quantità e lo splendore delle loro tuniche; erano variopinte e brillanti nella loro lucentezza e trama specialmente sui bordi, e così drappeggiate che i diversi bordi di questi variegati ornamenti sembravano competere l’uno con l’altro per vincere il riconoscimento dell’osservatore come il più splendente di tutti. Sopra gli abiti e sopra il cappuccio e i veli portavano medaglioni pendenti e collane di oro lavorato, e pendenti con gemme. Sulle mani avevano guanti bianchi, allacciati con ganci dorati. Sotto l’ultimo lembo della veste più intima, vidi sandali dorati, ingioiellati e rifiniti in scarlatto, risplendere alla luce delle fiaccole. Solo in un mondo di barbari, pensai, potevano avere il coraggio di indossare vesti così splendide, sontuose, ricche. (botta di invidia?)
Quando la portantina passò oltre, sfilarono alter fiaccole e altri uomini. La seconda portantina era caricata di preziose casse e scatole, colorate e legate con catene di ottone. Qualcuna di queste era coperta con ricchi tessuti che brillavano sotto la luce delle fiaccole.
Immaginai che quella processione fosse un corteo nunziale, e che la seconda portantina fosse caricata con ricchi doni o con la dote della sposa, o ricchi regali consegnati dallo sposo o da suoi parenti.
Il carro che seguiva in coda al corteo, rimorchiato dalle creature pelose simili a buoi, pensai che fosse ricolmo dei viveri per il corteo. La giornata sarebbe stata lunga. La sposa e le sue ancelle, come congetturavo, forse dovevano fare un lungo viaggio.
Piano piano, gli uomini e le fiaccole scomparvero in lontananza, fra gli alberi. Se ne erano andati.
La mano lasciò la mia bocca. Mi aveva liberata. Il coltello non puntava più alla mia gola. Avevo le ginocchia molli. Ero alquanto abbattuta. Lui rinfoderò il coltello e mi giro, tenendomi per le braccia, di fronte a lui. Mi tirò su il mento per costringermi a guardarlo. Incrociai il suo sguardo per qualche istante, poi abbassai la testa. Aveva intuito che io avevo gridato apposta, per rivelare la nostra posizione. Ma me lo aveva reso impossibile. Tremai dalla paura, temendo che stesse per schiaffeggiarmi. Caddi in ginocchio dinanzi a lui, e tralasciando il fatto di essere una ragazza rettestre, misi giù la testa e delicatamente gli baciai i piedi, premendo le labbra sui suoi sandali alti.

Girò a sinistra e abbandonò l’area della foresta, e io mi affrettai a seguirlo. Non mi aveva preso a schiaffi. Non mi aveva legata ad un albero, per lasciarmi divorare. Non mi aveva incitata a dargli un solo istante della mia vita.
Lo seguii. Pensai tra me e me che ora sapevo come trattare con quest’uomo. Avrei dovuto solo adulare la sua vanità. Mi sarebbe bastato eseguire qualche gesto per rabbonirlo. Rimuginavo su quanto ero stata abile, e lui stolto, a farsi manipolare da una ragazza. Non avevo ancora capito l’incredibile clemenza con cui ero stata trattata, nè che la pazienza di un uomo come quello non è infinita. Quanto avrei voluto che queste verità mi fossero già state insegnate.
Ero una ignorante e sconsiderata ragazza. Avrei dovuto imparare che l’ignoranza e la follia non sono a lungo tollerate in una ragazza come me su Gor.





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[1] veck (verbo): significa awaken (svégliati!)


[2] Var significa negazione e Bina indica un monile delle schiave, una placca metallica circolare su cui sono incastonate perline di legno o di vetro, generalmente usate per contenere il nome delle schiave stesse. Quindi la domanda dei due uomini è traducibile con “Niente collana, schiava?”


[3] Tal è un comune saluto goreano; rarius (pl. rarii): guerriero


[4] 21mo Aforisma del Codice dei Guerrieri Goreani (dai 100 Aforismi):

Toccare un Guerriero senza il suo permesso è canjellne.

Scagliare un’arma contro un Guerriero è canjellne.

Abusare della proprietà di un Guerriero senza ricompensarlo è canjellne.

Canjellne è il Rituale della Sfida. Guai a chi osa sfidare un Guerriero!


Cap. 1 - Il collare

Ero sdraiata nell'erba calda. Potevo sentirlo, il calore, attraverso i singoli fili verdi, separati, delicati, sulla mia guancia sinistra; potevo sentirli sul mio corpo, il mio stomaco e le cosce. Avevo il corpo e i piedi distesi. Stavo dormendo. Non desideravo svegliarmi. Il sole riscaldava la mia schiena, con un calore a tratti insopportabile. Ero accoccolata nell'erba più alta. La mia mano sinistra era aperta. Le mie dita toccavano il caldo terreno dietro i fili d'erba. I miei occhi erano chiusi.
Esitavo a riprendere coscienza. Non avrei voluto alzarmi dal letto. La coscienza sembrava arrivare lentamente, debolmente. Non avrei voluto alzarmi da quel letto. Avrei voluto prolungare quel calore, quella gradevolezza. Mossi la testa leggermente. Il mio collo sembrava indossare un peso; sentii il tintinnio morbido, una piccola agitazione, di pesanti vincoli di metallo. Non capivo.
Mossi ancora la testa, mezza addormentata ad occhi chiusi, riportandola nella sua posizione originale. Ancora una volta sentii il peso, circolare, pesante, sul mio collo. Udii di nuovo il leggero suono, lo scuotimento puro e semplice di catena di metallo pesante.
Aprii gli occhi, parzialmente, tenendoli socchiusi nella controluce, e vidi l'erba, verde e vicina, ogni singolo filo offuscato dalla vicinanza. Le mie dita affondarono nella calda terra. Chiusi gli occhi. Cominciavo a sudare. Dovevo alzarmi dal letto. Dovevo fare colazione, correre in classe. Doveva essere molto tardi. Avevo fretta.
Ricordai il fazzoletto scivolato sulla mia bocca e sul naso, i vapori, la forza di colui che mi aveva preso. Mi contorcevo, ma ero tenuta nella sua morsa, inerme. Ero terrorizzata. Avevo provato a non respirare. Avevo lottato ma inutilmente. Ero terrorizzata. Non avevo mai conosciuto un uomo tanto forte. Era paziente, calmo, ed aspettò che io respirassi. Ci provai a non respirare. Poi, i polmoni ansimarono, inermi, e alla fine inalarono profondamente, disperatamente, sussultando e lasciando scorrere i vapori in profondità nel mio corpo. In un istante, soffocando orribilmente, annusai le esalazioni, incapace di espellerle, incapace di sottrarmi a loro. La nausea mi fece perdere conoscenza.
Giacqui nell'erba calda. Potevo sentirla sul mio corpo. Dovevo alzarmi dal letto, fare colazione e correre in classe. Sicuramente era tardissimo. Avevo molta fretta.
Aprii gli occhi, guardando i fili d'erba non lontani dalla mia faccia, offuscati. Aprii la bocca, delicatamente, e sentii l'erba sfiorare le mie labbra. Mordicchiai un filo e sentii il succo amaro dell'erba sulla lingua. Richiusi gli occhi. Dovevo svegliarmi.
Ricordavo gli abiti e la forza dell'uomo, e i vapori.
Le mie dita affondavano nel terreno. Lo graffiai. Sentii lo sporco sotto le unghie. Alzai la testa e la girai, risvegliandomi urlando aggrovigliata in una catena, nell'erba. Mi misi a sedere. In un istante realizzai che ero nuda. Il mio collo era circondato da un oggetto circolare; la pesante catena, attaccata al collare, pendeva in mezzo al seno e ricadeva sulla gamba sinistra.
"No! No!" gridai "No!"
Scattai in piedi urlando. Il peso della catena dipendeva dal collare, pesantemente, graziosamente. Sentivo che il collare era tirato verso il basso, contro la clavicola. La catena passava ora in mezzo alle gambe, girava dietro il polpaccio sinistro e risaliva. La tirai selvaggiamente. Provai a sfilarmi il collare. Lo girai e lo spinsi in su, sopra la testa. Mi raschiai solo la gola, escoriandola. Il mio mento era forzato in su. Vedevo il cielo luminoso, tutto blu con sparse nuvole bianche. Ma non potevo far scivolare il collare. Mi aderiva strettamente. Solo il mignolo potevo insinuare fra il collare e il mio collo. Ebbi un gemito. Il collare non poteva scivolare via, non era fatto per poter scivolare via. Irrazionalmente, follemente, niente di cosciente ma per paura fu che mi girai per fuggire e la catena si aggrovigliò tra i miei piedi facendomi male. Caddi in ginocchio, raccogliendo la catena e piansi. Cercai di ritornare indietro, sulle ginocchia; la mia testa rimase tirata in avanti crudelmente. Ero trattenuta dalla catena.
Era lunga circa 10 piedi. Si allungava fino ad un pesante anello fissato ad una piastra in una grande roccia di granito, irregolare, di circa 12 piedi di larghezza e profondità, una decina di piedi di altezza. La piastra, con il suo anello, era attaccata al centro della roccia, in basso, a circa un piede dall'erba. La roccia era stata apparentemente perforata e la piastra fissata con quattro bulloni lineari, che attraversavano l’intera larghezza della roccia ed erano fissati sul lato opposto. Non capivo come.
Inginocchiata, strattonavo la catena. Piangevo. Gridavo. Tirai ancora la catena ma mi feci male alle mani e non mi ero mossa nemmeno di un quarto di pollice. Ero assicurata saldamente alla roccia.
Puntai i piedi per terra, le mani sulla catena. Mi guardai attentamente. La roccia era enorme e non c’era niente altro nelle vicinanze. Ero in una pianura erbosa e pianeggiante, ampiamente spazzata e senza asperità. Non vedevo altro che erba, che si muoveva ondeggiando alla brezza fino al distante orizzonte, e strane nuvole bianche nel cielo azzurro. Ero sola. Il sole era caldo, Dietro di me la roccia. Sentivo il vento sul mio corpo ma non direttamente, come la piastra nella pietra era posta sull’altro lato della roccia. Mi chiedevo se avrebbe prevalso il vento. Mi chiedevo se la piastra e la catena fossero state collocate in ordine per rendermi prigioniera della catena, ma non anche del vento. Rabbrividii. Ero sola.
Ero nuda. Io, piccola e indifesa, ero incatenata per il collo ad una enorme roccia in una pianura senza apparente fine. Respiravo profondamente. Mai nella mia vita avevo respirato tanta aria. Anche se la mia testa era incatenata, la tirai indietro. Chiusi gli occhi. Respirai l’atmosfera a pieni polmoni. Quelli che non hanno mai respirato l’aria in questa guisa non potranno mai sapere cosa stavo provando. Mi rallegravo per una cosa così semplice come respirare l’aria.
Era fresca e pulita; fresca, quasi viva, frizzante, quasi inebriante per l’abbondante ossigeno. Era come l’aria di un mondo nuovo, ancora incontaminato dalle tossine della moltitudine degli uomini, un dono indiscusso ma avvelenato dalla civiltà e dalla tecnologia. Quest’aria rendeva il mio corpo vitale e vivo. Semplicemente per aver ossigenato il mio lavoro, mi ha dato la sensazione di essere cosciente.
Quelli che non hanno mai respirato aria pulita non possono capire le mie parole. E forse quelli che hanno respirato solo un’atmosfera simile, tragicamente, potrebbero fraintendermi.
Fino a quando si può conoscere la gioia di essere vivi solo attraverso l’aria che si respira? Ero sola e spaventata.
Uno strano mondo, quello in cui mi trovavo, deserto e sconosciuto, aperto luminoso e pulito. Guardai per i vasti campi erbosi. Non avevo mai sentito l’odore dell’erba prima. Era così fresca, così bella. I miei sensi erano vivi.
In questa atmosfera, il mio sangue arricchito dall’ossigeno, potevo rilevare odori che mi erano sempre sfuggiti. Fu come se tutta una nuova dimensione di esperienza mi si fosse aperta, ma supponevo che avrebbe potuto accadere solo qui, in questo luogo, dove il mio corpo non aveva motivo di lottare, dove non potevo essere distratta o disgustata dalla coscienza.
Qui vi era un’atmosfera fluida, scorrevole, in cui l’uomo avrebbe potuto essere parte della natura, non un baluardo contro di lei sollevato, non un forestiero che sta sulla difensiva di notte, passeggiando dolcemente e avendo il coraggio di respirare attraverso un paese di nemici.
La mia visione, anche in quest’aria pura, era viva. Riuscivo a vedere più lontano e molto più dettagliatamente di quanto non fosse possibile con un cielo sgombro, anche se si erano levate nuvole che contaminavano l’atmosfera.
Quanto mi sembrava lontano l’inquinamento del grigio mondo! Certi giorni ci avevo pensato all’aria pulita, me la ricordavo ed ero felice della sua freschezza. Quanto poco la conoscevo … quanto ero stupida. Era solo meno oscura e triste, solo un segno di quello che il mondo avrebbe potuto essere.
Il mio udito mi sembrava troppo acuto. Il vento spazzolava l’erba, la spostava mescolando le lucenti foglie.
I colori mi sembravano più ricchi, più profondi, più vivi. L’erba era più verde, più viva, più grande; il cielo era blu, profondamente blu, più profondo del cielo che avevo conosciuto fino ad allora.
Le nuvole erano bianche e spesse, proteiformi e ondeggianti, che si trasformavano per la pressione e l’altezza mentre il vento le movimentava. Si muovevano a diverse altezze e a diverse velocità; erano come grandi uccelli bianchi, maestosi e imponenti, torniti, galleggianti nei fiumi del vento. Sentivo il vento passare sopra il mio corpo esposto; tremavo. Ogni pezzetto di me era vivo. Avevo paura.
Guardai il sole. Guardai in alto, poi in basso attraverso le nuvole e i campi. Ero cosciente adesso, come non ero mai stata prima, non così chiaramente, della differenza delle sensazioni del mio corpo e dei suoi movimenti. Mi sembrava che ci fosse una sottile differenza del peso del mio corpo e delle mie movenze. Spingevo la mia comprensione al di fuori della mente. Non riuscivo ad ammetterlo. Avevo forzato la mia comprensione fuori dalla coscienza. Ma era ritornata, persistente, e non potevo negarla.
“No!” gridai. Ma sapevo che era tutto vero. Provai ad allontanare dalla mente quello che doveva essere, quello che era stato, la spiegazione di questo insolito fenomeno.
“No!” gridai ancora. “Non può essere! No! No!”
Intorpidita, sollevai la catena che pendeva dal collare appesantendo il collo. La guardai incredula. Gli anelli erano saldati, pesanti, di un ferro nero primitivo e rozzo. Non sembrava molto bella né molto costosa. Ma ero imprigionata da essa.
Toccai il collare con le dita; non potevo vederlo, ma mi sembrò formato anch’esso di ferro pesante.
Sembrava semplice, pratico, non ostentato; piuttosto mi stringeva la gola in maniera inevitabile. Supponevo che fosse di colore nero, assortito con la catena. Aveva una pesante cerniera su un lato e la catena, tramite un anello che la apriva e chiudeva, era fissata ad un anello sul lato del collare. L’anello era fissato con un gancio saldato che, a qualto pareva, era una parte stessa del collare.
La cerniera era sotto il mio orecchio destro, la catena appesa al gancio e l’anello sotto il mento. Con le dita, sull’altro lato, sotto l’orecchio sinistro sentivo un grosso lucchetto, con la serratura per la chiave. Il collare era chiuso dal lucchetto, quindi non era stato costruito intorno al mio collo. Mi chiedevo chi avesse la chiave di quel collare.
Girai tutto intorno alla roccia di granito e guardai bene sotto lo strato di muschio.
Devo cercare di risvegliarmi, mi dicevo. Devo risvegliarmi. Risi amaramente. Sto certamente sognando, mi dicevo.
Ancora una volta sentivo delle differenze fra le sensazioni del mio corpo, il suo peso, i suoi movmenti, come se fosse un intruso nella mia coscienza.
"No!" gridai.
Poi mi avvicinai alla roccia e guardai bene la piastra metallica con l’anello saldato nella pietra. Un anello della mia catena doveva essere stato aperto e poi saldato intorno a questo anello. La catena era lunga dieci piedi. La arrotolai ai piedi dell’anello.
"No!" gridai ancora.
Dovevo svegliarmi, mi ripetevo. Sicuramente è tempo di svegliarmi, di sbrigarmi a fare colazione, di correre in classe. Non c’era altra spiegazione, mi dicevo: sto sognando. Poi ebbi paura di essere diventata pazza. No, mi dicevo. Sto sognando. E’ uno strano sogno, troppo realistico, ma è pur sempre un sogno. Deve esserlo. Deve esserlo. Tutto un sogno!
Dopo l’autocommiserazione, mi ricordai dell’uomo che mi aveva sequestrata assalendomi da dietro per non essere visto, della mia lotta, dell’essere fatta prigioniera senza pietà, del fazzoletto sulla bocca e sul naso, del mio trattenere il respiro, dei terribili vapori che alla fine inalai non avendo altro da inspirare, niente altro, del fatto che la mia coscienza non poteva tollerare tutto questo, e alla fine della mia perdita di coscienza.
Così, adesso sapevo che non stavo sognando.
Stavo colpendo con i pugni fino a dissanguarmi quella roccia di granito ricoperta dal muschio.
Girai ancora e camminando mi allontanai dalla roccia circa cinque piedi, e cercai frugando con lo sguardo nella vasta distesa di erba.
"Oh, no!" piangevo.
La piena coscienza del mio stato di veglia e la mia coscienza della verità, fluivano dentro di me. Invadevano la mia coscienza, a schiacciante maggioranza, irrefutabilmente.
Sapevo dunque quale era la spiegazione per le differenze di sensazioni nel mio corpo, per il senso di differenza cinetica nei miei movimenti. Non ero sulla Terra!
La gravità non era quella della Terra. Ero in un altro mondo, un mondo sconosciuto. Era un mondo luminoso, bello, ma non era la Terra. Non era il pianeta che conoscevo. Non era casa mia. Ero stata portata qui, ma nessuno aveva consultato la mia volontà; ero stata deportata qui, ma la mia volontà era stata annientata.
Ero sola lì, denudata, indifesa, accanto ad una grande roccia, guardando i campi erbosi. Ero sola e terrorizzata, ed indossavo solo un collare al collo.
Improvvisamente gridai per la mia triste sorte e mi nascosi il viso tra le mani. Mi sembrava che la terra scivolasse sotto di me e le tenebre mi spazzassero il capo, scorrendo veloci su di me mentre perdevo conoscenza.